Ormea, una scommessa di ritorno

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Di Antonella Tarpino

Articolo pubblicato su volerelaluna.it

Nella premessa al suo libro Un’Italia che scompare. Perché Ormea è un caso singolare? Fabio Balocco scrive che quando ripercorre la Val Tanaro da Ceva al Colle di Nava è attirato dalle indicazioni dei poveri borghi addossati «alla destra come alla sinistra orografica» e si immagina quanti abitanti ancora vi risiedano. Queste parole mi han fatto pensare a una riflessione di Nuto Revelli riportata nel suo Mondo dei vinti sommerso, perduto, quando descrive quei paesaggi divenuti incolti, finiti nell’abbandono: «Ormai il paesaggio lo leggo sempre e soltanto attraverso il filtro delle testimonianze. Sono le testimonianze che mi condizionano che mi impongono un confronto continuo tra il passato lontano e il presente. Attraverso quelle storie vedo il mosaico antico delle colture e dei colori anche dove è subentrato il gerbido, dove ha vinto la brughiera, vedo le borgate piene di gente e non in rovina, anche dove si è spenta la vita». Perché quei territori in abbandono li si riescono a leggere solo attraverso gli occhi di chi vi ha abitato, il disegno del lavoro impresso sui campi o sui sentieri dei pastori. Così è nel caso delle tante voci dei testimoni che Fabio Balocco raccoglie ad Ormea e nelle sue frazioni, uno dei Comuni che più hanno subito la piaga dello spopolamento.

Brevi cenni sulle sue origini perché non tutti sanno che il cuneese è stato a lungo area di saccheggio dei Saraceni insediati a Fraxinetum tra Provenza e Costa Azzurra. Tracce della loro presenza sono registrate fin dall’890 e rinvenute proprio nel territorio del Comune di Ormea nella torre del Castelletto (oggi rimangono solo le fondamenta) e nella caverna fortificata detta Balma del Messere a Cantarana, che infatti viene anche chiamata “Grotta dei Saraceni”. Solo a partire dal 1600 sorsero però le numerose frazioni di Ormea: fu da allora che gli abitanti si distribuirono lungo le pendici dei monti intorno al nucleo principale di fondovalle – racconta con dovizia l’autore – anche dove i declivi erano più impervi, grazie soprattutto a opere di terrazzamento in pietra a secco, come avveniva del resto nella confinante Liguria, arrivando anche ad altitudini di 1500-1600 metri sul livello del mare. Si formarono prima dei piccoli nuclei di poche abitazioni e poi vere e proprie frazioni: le famiglie richiedevano al vescovo di poter edificare la chiesa, il camposanto e di poter contare su un sacerdote per le funzioni religiose. Nel ‘700 a Ormea erano presenti 8 canonici, 22 preti celebranti e 5 chierici. Col tempo in quei piccoli centri abitati sorsero dei locali adiacenti la chiesa che potessero ospitare le lezioni per i bambini. E alla fine dell’800-inizio 900, la popolazione del Comune era distribuita equamente fra centro storico e frazioni. Secondo un percorso inverso certo è, invece, che lo spopolamento avviato nel secolo scorso riguardò quasi esclusivamente le frazioni di Ormea, non il capoluogo.

Ma veniamo alle testimonianze. Le condizioni della vita erano dure, unito anche al fatto della parcellizzazione dei terreni – racconta Giorgio Michelis – ognuno era proprietario di piccoli appezzamenti e anche sparpagliati: non c’era una grande proprietà che desse da vivere bene. Non tutte le frazioni erano proprio uguali. «Lo spopolamento di Chionea iniziò negli anni ’50 – ricorda un’altra testimone Odette Sappa –. La vita in montagna era dura, le famiglie avevano galline, qualche mucca e qualche capra, nei campi si coltivava grano e patate e nei boschi si raccoglievano le castagne che una volta secche si conservavano per un anno. La vendita di burro e uova veniva barattata con zucchero, sale e altri piccoli beni. Nei lunghi inverni, quando non si poteva lavorare nei campi, le persone più giovani andavano in Liguria o in Francia a raccogliere le olive o a tagliar legna sotto padrone, ma continuavano a risiedere in paese. Il grande esodo iniziò verso gli anni ‘60, quando le famiglie si spostarono per cercare lavoro in altri paesi. In particolare, in tanti si trasferirono a Monte Carlo per lavorare come spazzini». O alla Grascina (Aligi Michelis) quando «c’erano un tempo alcune persone che erano incaricate di venderne la carne, se era commestibile, alla comunità, e ognuno comprava la carne e pagava in base ai capi di bestiame che possedeva. Invece se moriva di malattia, la colletta veniva comunque fatta, ma ognuno pagava una quota inferiore. Questa operazione si chiamava appunto la “grascina”. Si era poveri, ma c’era un forte spirito di comunità. C’erano dei beni che venivano condivisi, tipo la stadera. E ogni abitante contribuiva a mantenere la mulattiera di accesso alla frazione o alla borgata. La “grascina” è terminata quando in una frazione rimasero solo più due famiglie. Era una specie di assicurazione o, meglio, un mutuo soccorso». Coi bambini che facevano i pastori fin da piccoli come Lidia Sappa che: «a otto anni andavo al pascolo dalla mattina alla sera. E c’era anche chi ci andava a quattro anni. Io mi portavo al pascolo delle fazze da mangiare e un pezzo di formaggio. Le fazze erano delle schiacciate fatte con farina, latte e bicarbonato di sodio come lievitante, che si cuocevano sul piano della stufa. Quando c’era la panna si aggiungeva all’impasto. Con questo pasto andavamo su fino quasi sul Pizzo d’Ormea su pascoli comunali. Per pascolare si pagava una tassa molto contenuta al Comune. Non avevamo il cane, come invece avevano altri. I temporali che mi sono presa lo so solo io. Un giorno tre della frazione vennero colpiti da un fulmine e si salvarono per miracolo. E c’erano alcuni che da Chionea salivano su fino quasi al Pizzo, verso le dieci mungevano, poi portavano giù il latte, risalivano dopo pranzo, mungevano di nuovo e scendevano alla sera».

Anche il paesaggio non è più lo stesso perché i tetti allora erano in paglia, in tutte le frazioni, salvo alcuni, pochissimi, che erano in “lose”. La paglia è stata usata (come in altre aree del Piemonte) fino a una cinquantina di anni fa. Ormea – va detto – come altre aree cadute in spopolamento è ai confini tra due regioni diverse, il Piemonte e la Liguria: ha una parlata tradizionale a sé, differente da quella dei paesi vicini, così come dal dialetto ligure e da quello piemontese. Gli studiosi della materia sostengono che derivi dalle parlate dell’ingauno (Albingaunum era l’antico nome di Albenga).  

E ora? Accentuato spopolamento, chiusura dell’attività industriale che la caratterizzava (la cartiera), fallimento dello sci di pista, rarefazione dei turisti, perdita dell’identità culturale, conclude Balocco: un quadro non certo confortante se si confronta Ormea con il passato che ha conosciuto. Cosa si fa oggi per rivitalizzare Ormea? L’autore lo chiede direttamente al sindaco, Giorgio Ferraris. «Abbiamo avuto un passato importante, a partire dalla fine dell’Ottocento, grazie alla costruzione della ferrovia, che ha consentito una facile e comoda accessibilità turistica quando i territori montani di gran parte delle valli alpine erano quasi inaccessibili e l’insediamento industriale della Cartiera, che è stata per quasi un secolo la fonte principale di occupazione per la nostra Comunità. Con queste opportunità, che si sono create più di un secolo fa, la progressiva marginalizzazione e l’abbandono delle attività agricole sui versanti montani sono stati più rapidi e precoci rispetto ad altre vallate. La crisi della Cartiera è stata una vicenda lunga e tormentata, dalla metà degli anni ‘70, quando aveva ancora più di quattrocento dipendenti oltre ad un indotto significativo, fino alla definitiva chiusura del 2007, quando vi erano ancora un’ottantina di occupati». Contestualmente – continua il sindaco – «abbiamo registrato un aumento notevole dell’età media dei nostri concittadini, perché molti giovani sono emigrati alla ricerca di opportunità di lavoro che la nostra zona non offre. Questo sia a causa del progressivo ridimensionamento e poi della chiusura della Cartiera, che per l’aumento della scolarità, che ha comportato la necessità per molti giovani di trasferirsi in aree dove esistono possibilità di collocazioni professionali adeguate e coerenti con i titoli di studio conseguiti, inesistenti, o limitatissime, sul nostro territorio. Sono cambiate le motivazioni, ma la diminuzione della popolazione residente, inevitabilmente, continua e non si registrano, al momento, inversioni di tendenza».

Tra le realtà però significative di Ormea da valorizzare è la Scuola Forestale con ricadute importanti sul territorio sia per gli stimoli culturali che dà al territorio sia per la rilevanza economica della presenza di un numero significativo di insegnanti e di studenti. Gran parte degli studenti provengono da località del Piemonte e della Liguria che, per le distanze, non sono raggiungibili quotidianamente e sono quindi costretti a risiedere a Ormea, dove molti vivono in affitto in alloggi privati e quelli delle prime classi nel convitto annesso alla Scuola, che può ospitare fino a 70 ragazzi. Oltre a rappresentare un indotto economico, la Scuola costituisce una struttura di eccellenza, unica nel suo indirizzo nel Nord Ovest, che ha collegamenti e interazioni sia con Scienze Forestali della Facoltà di Agraria dell’Università di Torino, sia con tutti gli enti che, a livello nazionale e regionale, hanno competenze e interessi nel settore forestale e più generalmente nell’economia dei territori montani. Sono state intraprese alcune iniziative per incentivare una crescita del settore, come la creazione di un consorzio e la realizzazione di un impianto cittadino di teleriscaldamento alimentato a cippato di legna.

Mi soffermo su questo punto a riprova del fatto che declinare la scommessa del Ritorno in montagna (o della Restanza che è la stessa cosa) con la parola scuola è decisivo. A Paraloup per esempio, la borgata alpina della Valle Stura che proprio la Fondazione intitolata a Nuto Revelli ha recuperato è stata accolta, su iniziativa della stessa Facoltà di Agraria di Torino la prima Scuola del Ritorno o meglio Scuola per i giovani agricoltori di montagna (Sgam) sotto la direzione del prof. Andrea Cavallero specializzato proprio in Scienze forestali. Scuola di Ritorno allora? Sì, perché tanto l’esodo dalla montagna a Ormea (come nelle vallate alpine cuneesi che ha toccato a partire dagli anni Cinquanta tassi di spopolamento superiori al 70%) è stato caotico, sgovernato, tanto i processi di Ritorno, ripopolamento, complessi, legati alla specificità dei singoli territori vanno governati. Imparare a ritornare o a restare (quando tutti i luoghi cambiano in continuazione, secondo l’antropologo Vito Teti) vuol dire anche ricostruire un tessuto sociale, riproporre quelle neocomunità tutte da costruire (nella definizione di un altro antropologo Pietro Clemente) perché sono il prodotto, a differenza che nel passato, di una scelta di vita consapevole. Per chi ritorna ma anche per chi resta. Difendere i territori dallo spopolamento e dall’abbandono vuol dire racquistare una coscienza di luogo (uso la felice espressione degli amici Territorialisti di Alberto Magnaghi) perché i luoghi non sono indifferenti.

Non è una scommessa semplice il Ritorno in montagna, chiamato, com’è a sanare una caduta anzitutto culturale: perché è proprio il venir meno di un linguaggio proprio, il farsi raccontare dagli altri – dallo sguardo ieri dei cartografi degli Stati-nazione (e da ciò che io chiamo le “geografie negative” dei margini, le frontiere, i confini) oggi dei turisti o degli investitori – la premessa dello spopolamento, dell’abbandono di intere comunità. È importante allora, come fa Fabio Balocco, reinterrogare il patrimonio territoriale che abbiamo ereditato perché nella nostra fase opaca, disorientata, priva di direzione, possiamo “riconoscerci”. Riconoscere i nostri territori, è l’impegno crescente di molti di noi, imparare a reinventare un futuro che neanche quello è rimasto in piedi, legato com’è a un’idea un progresso che ha scompensato e violato l’ambiente naturale, lo stesso disegno del Paese, schiacciato com’è tra i “troppo pieni” delle città e delle coste e i “troppo vuoti” delle montagne (appenniniche e alpine) e delle aree interne. Come Ormea, con le sue frazioni svuotate, sta a dimostrare.

Lottare per l’impossibile, ovvero prendersi cura del paesaggio rurale siciliano

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di Leonardo Ruvolo

Articolo tratto da chefare.com

Un anno e mezzo fa sono tornato a vivere ad Alcamo, la mia città natale in Sicilia, dove curo Landescape, un’istituzione d’arte contemporanea che organizza mostre, ospita residenze artistiche e progetta laboratori. Ci sono tornato dopo alcuni anni vissuti a Milano, dove seguendo un Master in Diplomacy all’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale e partecipando attivamente all’assemblea di Macao, nuovo centro per l’arte, la ricerca e la cultura di Milano, ho contribuito allala conversazione sul tema dei beni comuni: un percorso sulla loro proprietà, il loro utilizzo e la loro natura.

Tutto ciò è andato avanti fino a gennaio 2018, quando dopo aver lavorato alla Guida Galattica per Nuove Istituzioni, la campagna per negoziare la presenza di Macao all’interno degli edifici comunali di viale Molise 68, mi accorsi di essere stanco. Non ne potevo più di organizzare eventi per finanziare la vita e i progetti di Macao: era diventata una macchina tritacarne, e non ero disposto a lavorare per poche centinaia di euro pur di poter continuare a vivere a Milano. Così, ho deciso di tornare nel mio paese.

LO SPAZIO È RIDONDANTE
In Sicilia il paesaggio urbano occupa a malapena i bordi dell’isola — si infittisce soltanto attorno alle grandi città. La costa è una corteccia continua di case di mare, cemento, e sabbia. Il paesaggio rurale, invece, è un’immensa distesa di terra su cui insistono, a sorvegliare il nulla, le case di campagna. Esistono più case di quante sia possibile abitare e per ogni abitante esistono molti più spazi di quanti ne siano effettivamente utilizzati.

La proprietà privata è una tautologia ridondante: i patrimoni immobiliari richiedono manutenzione ed investimenti continui per conservare il loro valore, ed è così che —  tra le pieghe dell’accumulazione di capitale e dell’investimento senza cura — si fa spazio la distruzione stessa del sistema. Nel frattempo, la proprietà pubblica sopravvive grazie ad iniezioni di capitale europeo lasciando sul territorio dei mostri di cemento nell’attesa che qualcuno suggerisca una destinazione d’uso o semplicemente qualcosa da farci.

L’attuale stato della aree rurali è una diretta conseguenza del ruolo eccessivamente centrale dell’agricoltura come motore di sviluppo economico prevalente. Nel corso dei secoli, l’intensificarsi della produzione industriale e la crescente urbanizzazione hanno reso le aree rurali un bacino da cui prelevare forza lavoro da trasferire nei centri industriali e cittadini. Fuori da fabbriche e condomini delle aree metropolitane della piattaforma economica continentale, la Sicilia, così come altre regioni europee, è relegata alla marginalità: bassa densità di popolazione, emigrazione, bassi livelli di reddito, poche opportunità di lavoro, mancanza di investimenti pubblici e privati, distanza geografica dai centri e povertà di servizi sono solo alcuni dei problemi che condannano queste aree ad un declino economico, sociale e culturale, tale da sembrare inevitabile.

È a partire da questo scenario che nel 2015, poco prima di partire per Milano, insieme al mio caro amico Giuseppe Calamia abbiamo fondato Landescape: un progetto che allora era principalmente volto a portare in Sicilia pratiche audiovisive e performative sperimentali che ragionassero sul paesaggio e sull’ambiente naturale. Nella sua prima forma il progetto venne fuori come una rassegna super punk all’interno della Riserva Naturale del Bosco d’Alcamo, successivamente abbiamo trovato ospitalità all’Orto Botanico di Palermo.

La nostra proposta era ingenua, ma spontanea: per una notte l’Orto Botanico di Palermo si popolava di performance e installazioni che avevano a che fare con l’arte contemporanea. Landescape si è manifestato in questa forma per 3 edizioni, la prima ad Alcamo, durante le quali abbiamo incassato un sacco di critiche perché i modi erano dilettanteschi. Per quanto provassimo a replicare modelli di produzione artistica che in altri contesti avevano funzionato, in Sicilia tutto diventava molto difficile. Infatti era ed è difficile dare un valore economico a queste esperienze culturali, trovare maestranze e professionalità in grado di realizzare i progetti che immaginavamo, fare i conti con un pubblico che non conosce quello che nel quadrante di Milano, Berlino, Parigi, Londra è normale — se non addirittura banale.

Il 2018 è stato uno spartiacque. Una volta ristabilito definitivamente in Sicilia il centro delle mie operazioni, mi sentivo soffocare, avevo bisogno di una strategia per sopravvivere. Mi buttai a capofitto nella natura e nel paesaggio, l’unica cosa che riuscisse a calmare i miei stati d’animo inquieti: un giorno sì e l’altro pure controllavo il costo dei biglietti per tornare a Milano. Più andavo avanti e più entravo nel paesaggio rurale, più comprendevo che era esso stesso a suggerirmi la strategia. Mi si apriva dinnanzi una prospettiva tanto desolante quanto eccitante: processi da iniziare e spazi da occupare. L’esperienza sul campo a Macao mi aveva insegnato che là dove ci sono spazi da occupare è necessario attivare dei processi di cura collettivi per rivendicare diritti di libertà, sociali e culturali. Inoltre ho anche avuto modo di capire che senza una una garanzia istituzionale, presto o tardi i processi attivati non sopravvivono alle logiche del mercato della produzione culturale.

Il 2018 è lo stesso anno in cui arriva Manifesta a Palermo. L’Orto Botanico, dove noi eravamo presenti, diventa una location centrale per la biennale.Sfrattati da Palermo, decidiamo di tornare ad Alcamo e di cambiare completamente ciò che stavamo facendo, mettendo in relazione il capitale territoriale locale con quello umano costruito negli anni passati a Milano. Una nuova fase per il progetto Landescape si apriva grazie alla condivisione delle fatiche e della progettazione con un altro caro amico, Francesco Stabile.

Insieme, ad Alcamo, abbiamo creato una residenza artistica dove da ottobre 2018 ad oggi abbiamo ospitato più di 70 artisti, attivisti, professionisti della produzione culturale, prodotto 35 eventi tra mostre, concerti, workshop, party e talk, utilizzato 20 diverse location pubbliche e private, moltiplicato per 10 il budget di produzione, messo in rete più di 30 aziende locali dell’agroalimentare, dell’artigianato, del turismo e dell’edilizia. Non sono grandi numeri, ma per Alcamo — un paese di 45.000 abitanti in provincia di Trapani — si tratta di un traguardo che non avremmo mai pensato di raggiungere e in parte è stato possibile grazie alla garanzia economica del Comune del paese ed il continuo flusso di artisti.

LA CASA VICINA AL BOSCO
Ma budget e artisti non sarebbero bastati a far sopravvivere ciò che stavamo facendo: guardando indietro, il reale valore che abbiamo generato è quello che deriva dalla cura delle relazioni tra i vari attori coinvolti. In queste relazioni sono inscritte le esperienze di azioni fatte insieme, che diventano memorie e vissuti in grado di alimentare l’orizzonte immaginario verso cui tendiamo nell’incessante sforzo di sovvertire il reale. Queste relazioni e questo stare insieme avevano bisogno di una casa

Così abbiamo creato uno spazio, si chiama Posto Segreto, un laboratorio all’aria aperta tra vigneti e mandorle. PS  è fondamentale nell’infrastruttura che stiamo creando per assicurare una base sicura a tutti quelli che fanno parte del nostro network, ma al contempo creare un’opera d’arte vivente che rappresenti il tentativo incessante di migliorare le nostre condizioni di vita.

È per questo motivo che siamo ripartiti dalle basi di tutte le micro-società primitive: alimentazione e relazioni umane. Abbiamo messo a sistema il network di contadini,produttori locali e artisti in residenza per fare di Posto Segreto lo snodo principale di questa rete. Puoi passare per scambiare prodotti, organizzare una cena, fermarti a dormire, lavorare nei campi, ma soprattutto incontrare i forestieri.

L’incontro tra i locali e gli artisti che invitiamo genera delle energie inaspettate dal quale spontaneamente si creano situazioni confortevoli in cui ciascuno è libero di esprimersi come meglio crede. È così che è nato il progetto di rigenerazione del MACA, il Museo d’Arte Contemporanea di Alcamo: frutto dell’incontro esplosivo tra Landescape e R.I.S.A. – Research Institute for Spontaneous Action, che abbiamo fondato insieme a Giovanni Bozzoli e Alessandro Veneruso e che oggi include anche Anna Brussi, Francesca Maciocia, Federica Carenini, Francesco Stabile e Vitaly Weber. Contestualmente Landescape è diventata un’associazione e oggi conta una ventina di membri. Fare questi nomi e ripercorrere certe tappe non è semplice narcisismo, ma è il tentativo di ricostruire quel complesso reticolo di relazioni senza le quali questa storia non si potrebbe raccontare.

Insieme abbiamo immaginato Alcamo come un campo da gioco in cui gli attori, i luoghi, i materiali, i medium nonché le relazioni che si stabiliscono tra di loro disegnano una mappa. In questo senso naturaruralefolklorecultura culinaria e religione sono quelle aree tematiche che raccontano lo spirito di Alcamo. Allo stesso tempo diventano il contesto all’interno del quale invitare un artista a rappresentare il contemporaneo e la stretta connessione con la tradizione della popolazione autoctona. Gli artisti coinvolti sono invitati a partire dalla necessità di creare una prossimità tra la loro opera e gli altri attori coinvolti – fruitori museo, artisti locali, privati fornitori di materiali, proprietari delle location, istituzioni, professionalità dell’arte, media. Ciò assicura che l’intervento possa effettivamente entrare in relazione con la città e la sua comunità.

NUOVE MITOLOGIE PER VECCHIE ISTITUZIONI
Mentre io sogno di vedere funzionare un Museo d’Arte Contemporanea nel paesaggio rurale, mio nonno — come molti altri siciliani — sognava di realizzare una cantina all’interno di “ ‘u macasenu ” di campagna. Un’istituzione culturale contemporanea che racconti una comunità e il suo territorio necessità di un’opera di ricostruzione del paesaggio all’interno del quale è situata, per questo sto scrivendo una mitologia che racconti il paesaggio contemporaneo, i suoi attori e i suoi rituali.

Questo racconto inizia il 1° maggio 1947, la data dell’eccidio di Portella della Ginestra: quando  uccisi i contadini che manifestavano contro il latifondismo a favore dell’occupazione delle terre incolte e festeggiavano la recente vittoria del Blocco del Popolo, l’alleanza tra i socialisti di Nenni e i comunisti di Togliatti, alle elezioni dell’assemblea regionale siciliana.  I braccianti si erano uniti attraverso l’intera isola per rivendicare la proprietà delle terre incolte e la loro redistribuzione, ma il movimento venne represso nel sangue. Pochi anni dopo, nel 1950, viene approvata la riforma agraria, che… prende il via in tutta Italia grazie alla spinta prorompente che arrivava dalle lotte del movimento contadino siciliano. Ma in realtà questa storia è quella di una rivoluzione annunciata ma inattuata — come impedita da qualcosa di inatteso.

Ad Alcamo, tutti gli anziani che incontro mi dicono che in effetti negli anni ‘50 la rivoluzione vera è un’altra: resine melammina-formaldeide, poliestere, nylon, polietilene, polipropilene isotattico: il boom economico. Da quel momento nessuno avrebbe dovuto più temere “‘u pitittu” e gli odori che esalavano dai fuochi accesi nelle campagna cominciavano a sapere di morte.

È a questo punto, però, che si scopre che il consumismo come nuovo modello di sviluppo economico non assicura la creazione di ricchezza. I braccianti agricoli, infatti, facevano ancora la fame perché sostituiti dai trattori: appendevano le zappe ai muri e decidevano di partire con destinazione il Nord. A cavallo degli anni ‘60 e ‘70, un nuovo modello di sviluppo economico si diffonde su tutta l’isola: l’abusivismo edilizio. In quegli anni chi disponeva di un po’ di capitale o di qualche garanzia per ottenere un prestito comincia a costruire case improbabili, villette sulla sabbia e palazzi a tre-piani; di cui se andava bene terminavano il piano terra e il primo piano, mentre gli altri due li destinavano ai figli lasciandoli incompiuti.

Basta fare un giro ad Alcamo, oggi, per trovare centinaia di esempi di incompiuto nelle zone di nuova espansione: è un paesaggio che si estende dalla pedemontana alle zone costruite dopo il terremoto del ’68 — da Alcamo Marina alle arterie che portano al mare. Piani di cemento su piani di cemento che aspettano figli che non vogliono più tornare a casa. Quest’opera di deruralizzazione della Sicilia è collegata all’attesa della rivoluzione borghese industriale, che non è mai avvenuta e mai avverrà. Il paesaggio porta i segni di questa attesa vana e nel cemento, che ancora oggi scorre a tonnellate, ha trovato la propria cura. Ma la modernità ha una data di scadenza, quella della durata del cemento.

Rapidamente, ecco arrivare una nuova rivoluzione a promessa di un futuro roseo. È il 1992 e l’Italia promette ai suoi partner europei di diventare un membro virtuoso e accede al club dei paesi che avrebbero introdotto l’Euro, la nuova moneta, per amplificare e aumentare la velocità degli scambi commerciali tra gli stati nazionali europei. Le aree rurali diventano la meta di un modo di fare turismo integrato alla agri-cultura locale, e l’opportunità si trasforma presto in modello di sviluppo. È così che assistiamo, negli ultimi anni, alla proliferazione degli Airbnb che promettono accesso al mare e wi-fi gratuito, di escursioni in natura con quad e motoscafi fiammanti, di vendemmie per giovani tedeschi e workshop di “maccarruna cu la sarsa” per francesi rompicoglioni.

In questo disegno niente va messo da parte, il modello consumista e il patrimonio immobiliare costituiscono l’infrastruttura materiale su cui gira questo modello di sviluppo contemporaneo, mentre la agri-cultura, il patrimonio immateriale di conoscenza da cui attingere per dare una parvenza di realità alla nuova economia.

Pre-post Covid-19, un nuovo medioevo

È in questo scenario che un pattern si fa evidente: l’orizzonte rivoluzionario di cui ha sempre vissuto la Sicilia si trasforma ciclicamente nel motore principale della sua marginalizzazione. I processi di sviluppo economico si finanziarizzano rapidamente e generano, nuovamente, la domanda di un’altra rivoluzione. Nel frattempo, tutto rimane uguale.

La storia della capacità del capitale di territorializzare qualsiasi cosa non è, ovviamente, solo siciliana: nel mondo pre-Coronavirus lo stesso sentore lo si stava avendo con il montante movimento ecologista, invischiato nelle contraddizioni emerse a causa dei compromessi che ne hanno facilitato proprio la diffusione. Tra mercificazione in slogan, e prodotti, moda e comunicazione diventa chiaro il problema di una di una lotta che non si auto-organizza e prende per buona l’infrastruttura del sistema stesso che combatte.

La domanda circa quale lotta ingaggiare, come organizzarla e con quale strategia è al centro di tanti progetti che come istituzione culturale promuoviamo, nelle premesse e nell’approccio Prima della quarantena insieme a RISA, il Dirty Art Department del Sandberg Instituut e a Macao stavamo progettando la terza edizione della residenza artistica Wandering School:  immaginavamo un intervento spontaneo all’interno della settimana del Fuorisalone che rappresentasse a livello simbolico, estetico e speculativo lo snervante fatica di tutti i precariche non riescono a mettersi insieme, in quanto divisi dai processi produttivi che li mettono in competizione tra di loro.

Della pratica di quel progetto, per ora, non se ne farà nulla — ma le premesse sono ancora lì, esasperate dall’esplosione della pandemia. La parola del momento è together, e non posso nascondere che anche io la uso parecchio. È lo slogan principale della campagna elettorale di Bernie Sanders e Alexandra Ocasio-Cortez, e che già sappiamo essere sacrificabile sull’altare del progressismo di sinistra bianco e maschilista, rappresentato da Joe Biden. La stessa parola può essere riciclata come slogan delle nuove pubblicità di Vodafone. Per diventare, infine, il mantra anaffettivo di tutti i politici di destra o sinistra, a cui gli studi di comunicazione suggeriscono come entrare nella testa delle persone.

Con la definitiva sconfitta del movimento operaio, e la contestuale trasformazione delle persone in monadi votate al consumo, la socialità, il semplice stare insieme, diventa un bene da consumare, accompagnato da un po’ di intrattenimento culturale. L’aver reso la socialità e la cultura beni di consumo ha di fatto neutralizzato le intenzioni degli artisti, degli attivisti o di quanti in questi anni hanno creduto di star facendo arte politica. L’ipocrisia del sistema di produzione culturale è venuta definitivamente a galla quando una volta chiusi bar, teatri, club, cinema, musei, centri culturali ecc., abbiamo di fatto scoperto la natura non essenziale di un certo tipo di lavoro culturale.

Il semplice e spontaneo stare insieme diventa il campo dove condurre lo scontro. Per questo motivo, con gli amici di sempre, oggi, più che mai si litiga; è difficile fidarsi, la competizione e la frustrazione si insinuano in tutte le comunità. I nostri privilegi, piccoli o grandi che siano, sono allo stesso tempo l’ostacolo e l’opportunità di un miglioramento del nostro stare insieme. Per questo non ci si può abbandonare alla depressione della telecomunicazione: i corpi scalpitano, ardentemente desiderano stare insieme, lottare e farsi comunità. Curare il comune oggi è in teoria impossibile, e per questo sollecita una pratica risoluta che sa che tempo e spazio sono limitati. Questo conflitto è interiore, dell’individuo contro se stesso, della propria coscienza contro la propria morale. A partire da questa consapevolezza, spesso tradita, i discorsi contemporanei rivendicano giustamente migliori condizioni di lavoro e più reddito. In realtà in gioco c’è la sopravvivenza della comunità, che allo stesso tempo è la piattaforma da cui avanzare successive rivendicazioni.

Prima del Coronavirus immaginavamo di fare di Posto Segreto per questa stagione il centro di una serie di workshop, performance ed eventi. La pandemia ha chiesto una modifica della strategia sul breve periodo. Adesso, come i monasteri nel Medioevo per il mondo che verrà ospiteremo i pellegrini. Stiamo sognando.