Ripensare il nostro modo di abitare: un urbanista in viaggio per le metropoli del mondo

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di Antonella Tarpino

Articolo pubblicato su huffingtonpost.it

Nel suo libro Urbanità. Un viaggio in quattordici città per scoprire l’urbanistica, Carlo Ratti si sposta tra Amsterdam e Barcellona, Parigi e Melbourne, Milano e Dubai, esplorando le trasformazioni e i percorsi sperimentali in atto alla luce di quelle che sono le questioni cruciali dell’urbanistica contemporanea.

Colpisce fin dal titolo il libro dell’urbanista Carlo Ratti (che è anche una testimonianza in soggettiva): Urbanità. Un viaggio in quattordici città per scoprire l’urbanistica appena uscito da Einaudi. Noi non-urbanisti siamo abituati, infatti, a considerare il termine urbanità, urbano, certo un po’ demodè, legato più alla cortesia che alla civiltà urbanizzata anche se a sua volta la stessa parola civiltà ha a che fare – me ne accorgo mentre scrivo – con la civitas. La città è vero è un archetipo troppo potente anche perché per sua natura assume dentro di sé molteplici significati, segnati fin dagli esordi da opposti radicali: movimento e staticità.

Citando proprio il Lewis Mumford di The City in History, Ratti riconduce questa tensione a fattori ancestrali che risalgono alla frattura originaria, nell’evoluzione della vita, tra i protozoi, capaci in genere di muoversi liberamente, che dan forma al regno animale, e gli organismi relativamente “sessili” che appartengono al regno vegetale. Non è un caso, per arrivare fino alla scala umana, che la città nella sua dimensione plurale sia per eccellenza luogo di scambi, spazio di condivisione e confronto fra idee diverse.

Fedele a questo principio Ratti si definisce lui stesso un soggetto «interlocale» (secondo l’espressione di Suketu Metha) votato a una poliamorosità urbana simile a quella che sta trasformando molte relazioni sociali. Alla domanda: «Dove vivi?», risponde, «Faccio il bucato a Boston, Torino, Londra, Singapore…»

Nel libro-viaggio interurbano (che è più di un viaggio, un’osservazione interna alle città, spesso cantieri per il suo lavoro) fra Amsterdam e Barcellona, Parigi e Dubai, Milano e Melbourne….Ratti esplora le trasformazioni e i percorsi sperimentali in atto alla luce di quelle che sono le questioni cruciali dell’urbanistica contemporanea. Come mettere a punto, per esempio, la conversione di un nuovo quartiere «smart»?

Caso Melbourne. Nei tardi anni Ottanta particolarmente problematica era la situazione del Cbd – racconta – il quartiere dedicato agli affari che occupa il cuore storico della città australiana, con la sua maglia di vicoli strettissimi, risalente alla pianificazione pre-automobilistica d’epoca vittoriana e ancor più per il fatto che le infrastrutture del quartiere erano attive soltanto per una fascia di tempo molto limitata, dal lunedí al venerdí in orario d’ufficio secondo i dogmi di rigida separazione delle funzioni urbane, eredità della pianificazione modernista. Cosa sarebbe successo se si fosse cambiato approccio? Su indicazione dell’architetto capo Rob Adams, forte dell’esperienza maturata a Città del Capo, nell’arco di qualche anno il quartiere cominciò a cambiare volto e a essere vissuto in ogni fascia oraria o giorno della settimana. Si contrastò poi l’idea di espandere ulteriormente il perimetro urbano con  quella di aumentare la densità dell’abitato lungo le reti di trasporto pubblico. Un caso significativo.

Trasporto. Come sperimentare nuove forme di mobilità leggera in centri così comgestionati come le nostre città? Amsterdam, quanto a mobilità con tecnologie senza guidatore, è un esempio pilota. Le tecnologie self-driving promettono in effetti di rendere piú labile la distinzione tra modalità di trasporto pubbliche e private, accentuando la tendenza alla condivisione. Il veicolo senza guidatore potrebbe portarci al lavoro la mattina e poi, invece di restare parcheggiato, dare un passaggio a un membro della famiglia, a un vicino, o a chiunque altro in città. Questo consentirebbe una riduzione complessiva del numero dei veicoli circolanti, e delle aree di parcheggio, con vantaggi in termini di efficienza e sostenibilità. O come nel caso di una città con più vie d’acqua che d’asfalto come proprio Amsterdam – spiega Ratti – la mobilità autonoma può essere anche non su ruote ma galleggiante. Parliamo di una flotta di barchette autonome, capaci non solo di trasportare merci e passeggeri, ma anche di svolgere compiti legati al monitoraggio della città, grazie a una rete di sensori montati su ciascuna imbarcazione.

Ma ancora: su quali direttive avviare un grande progetto di rigenerazione urbana e nello specifico come intervenire in un insediamento informale? Particolarmente interessante il caso di Medellìn in Colombia e delle sue favelas diroccate. Il sindaco  si propose ai primi anni 2000 non di abbatterle per far posto al nuovo ma di conservare rigorosamente il tessuto urbano delle favelas progettando alcuni piccoli «inserti», per rimuovere le parti non agibili, e creando nuovi spazi pubblici: una piazza, una biblioteca, un campo di calcio. Promuovendo inoltre la creazione di collegamenti con la città pianificata mediante seggiovie o cabinovie per far fronte alle asperità del terreno. Ma come usare le nuove tecnologie – è una delle numerose domande che Ratti pone – per trasformare le favelas? Come sviluppare un modello Rio de Janeiro a vent’anni di distanza dal modello Medellín? L’idea è la seguente: applicare la tecnologia della scansione 3D, usata sempre di più nel settore dell’urbanistica e delle costruzioni, per andare a realizzare la prima mappatura di precisione di Rocinha, la più grande baraccopoli del Paese. Un compito che, a fronte della complessità del tessuto urbano, diventa invece possibile col digitale e i sistemi Lidar: apparecchi elettronici che permettono di misurare in profondità il territorio. La mappatura di un quartiere informale rappresenta infatti – osserva – il primo passo per identificare i singoli edifici.  E invece che praticare la demolizione su scala massiccia, si può pensare a interventi puntuali: piccole «incisioni» che permettano all’aria e alla luce del sole di entrare tra le case, rendendo salubri abitazioni altrimenti eccessivamente affastellate una sull’altra.

Per quanto riguarda l’integrazione poi tra il mondo del naturale e quello dell’artificiale, così da proporre una riconciliazione tra due modi dell’abitare, si può dire che Milano è tra le città più sperimentali. Basta con la città che colonizza la campagna, come nel secolo passato, ora è la campagna che ritorna in città. Grazie alle nuove tecnologie è possibile oggi portare la natura dove prima non c’era. In Italia, uno dei primi progetti di verde verticale architettonico è stato a Milano il Café Trussardi in piazza della Scala (su progetto dello stesso studio di Carlo Ratti e Associati) con tanto di giardino idroponico sospeso e la teca di cristallo del dehors sormontata da arbusti e specie rampicanti. Di immediata visibilità è poi il Bosco Verticale di Stefano Boeri a nord della stazione di Porta Garibaldi, un’icona della Milano contemporanea. La coppia di edifici, spiega, è il frutto di ricerche che hanno consentito di riprodurre un ecosistema naturale sulla facciata di un grattacielo, risolvendo ad esempio i problemi statici legati alla piantumazione di alberi di alto fusto fino a oltre 100 metri dal suolo.

Edifici che coniugano architettura contemporanea e natura ma non solo nel cuore della città. Milano – ho scoperto da pochi anni – ha uno dei parchi agricoli più grandi d’Europa (e chi lo direbbe?) Nel Parco Sud ci sono oltre 1400 aziende agricole, la cui attività principale è l’allevamento di bovini e suini; la coltura più diffusa è quella dei cereali (43%), seguono il riso ed il prato; l’ambiente naturale è connotato dalla presenza di aree boscate (da Cusago a Corbetta) parchi (Idroscalo ma non solo) e oasi naturalistiche. Almeno una sessantina di cascine sono di proprietà comunale e molte stanno conoscendo una nuova vita, con interventi sperimentali, tecnologie verdi, spazi per la formazione agricola.

Nuove formule che ci portano a superare vecchi parametri, gli stessi centro e periferia, campagna e città, nella consapevolezza che consumo di suolo, traffico congestionato, inquinamento, impongono un ripensamento radicale del nostro abitare secondo la lezione densa di suggestioni dello stesso Ratti.

I giovani, protagonisti di una montagna nuova

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di Federica Corrado e Stefano Sala

La qualità della vita di chi vive in montagna è maggiore e questo spinge i giovani a impegnarsi in percorsi di studi e attività in piccoli comuni fornendo un importante presidio territoriale.
Una pletora di buone pratiche e modelli replicabili in diversi territori montani italiani cui è necessario dare voce.
Specialmente dopo il periodo di pandemia che la nostra società ha vissuto, la frequentazione della montagna risulta essere sempre più diffusa e popolare e molti sono i giovani che si avvicinano a questa realtà per sport quali l’arrampicata, il trail running o semplicemente per trascorrere i loro weekend sui sentieri o frequentare i piccoli paesi di cui l’Italia è composta ma anche, seppur in numero limitato per iniziare ad intraprendere percorsi diversi di vita e innovativi progetti economici.
Nonostante queste recenti dinamiche, non possiamo affermare che oggi ci sia stato un vero e proprio cambio di paradigma: la maggior parte dei giovani si concentrano nelle grandi città e nei centri urbani dove sono concentrati i servizi (scuole, ospedali, bar, cinema) e vedono il loro futuro in questi ambienti dinamici e ricchi di opportunità lavorative, seppur distanti da un ambiente che è sempre più fragile a causa dei cambiamenti climatici in corso.
Per provare ad andare oltre, con l’idea di superare anzitutto quelle immagini e narrazioni che sembrano sempre contrapporre la città alla montagna, questo numero intende indagare e comprendere a fondo il rapporto giovani-montagna guardando dentro quella nicchia di giovani che i tanti paesi sparsi sulle Alpi e sugli Appennini decidono di viverli 365 giorni all’anno, facendo ancora oggi una scelta difficile e facile allo stesso tempo. Difficile perché i servizi scarseggiano (esistono zone d’Italia ancora non coperte dalla rete telefonica), le comunità sono sempre più frammentate anche nei piccoli paesi ma – soprattutto – perché le distanze e le tempistiche che il vivere in montagna richiede sono diverse da quelle che la società moderna richiede. Facile perché la qualità della vita è maggiore, si ha accesso ad ambienti unici e soprattutto si può vivere in maggior simbiosi con l’ambiente che ci circonda. Proprio questi elementi spingono giovani a impegnarsi in percorsi di studi dedicati e ad aprire la propria attività in piccoli comuni fornendo pertanto un importante presidio territoriale. Una pletora di buone pratiche e di modelli replicabili in diversi territori montani italiani hanno oggi i giovani come protagonisti ed è dunque necessario dare voce a queste coraggiose esperienze. In quest’ottica, sono tante le esperienze in corso che ci restituiscono l’entusiasmo, le capacità e lo sguardo nuovo dei giovani sulla montagna, uno sguardo lontano dalla retorica che oggi ci attanaglia sul recupero dei borghi e che poco ha a che fare con la vera e complessa vita nelle nostre montagne.

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Ormea, una scommessa di ritorno

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Di Antonella Tarpino

Articolo pubblicato su volerelaluna.it

Nella premessa al suo libro Un’Italia che scompare. Perché Ormea è un caso singolare? Fabio Balocco scrive che quando ripercorre la Val Tanaro da Ceva al Colle di Nava è attirato dalle indicazioni dei poveri borghi addossati «alla destra come alla sinistra orografica» e si immagina quanti abitanti ancora vi risiedano. Queste parole mi han fatto pensare a una riflessione di Nuto Revelli riportata nel suo Mondo dei vinti sommerso, perduto, quando descrive quei paesaggi divenuti incolti, finiti nell’abbandono: «Ormai il paesaggio lo leggo sempre e soltanto attraverso il filtro delle testimonianze. Sono le testimonianze che mi condizionano che mi impongono un confronto continuo tra il passato lontano e il presente. Attraverso quelle storie vedo il mosaico antico delle colture e dei colori anche dove è subentrato il gerbido, dove ha vinto la brughiera, vedo le borgate piene di gente e non in rovina, anche dove si è spenta la vita». Perché quei territori in abbandono li si riescono a leggere solo attraverso gli occhi di chi vi ha abitato, il disegno del lavoro impresso sui campi o sui sentieri dei pastori. Così è nel caso delle tante voci dei testimoni che Fabio Balocco raccoglie ad Ormea e nelle sue frazioni, uno dei Comuni che più hanno subito la piaga dello spopolamento.

Brevi cenni sulle sue origini perché non tutti sanno che il cuneese è stato a lungo area di saccheggio dei Saraceni insediati a Fraxinetum tra Provenza e Costa Azzurra. Tracce della loro presenza sono registrate fin dall’890 e rinvenute proprio nel territorio del Comune di Ormea nella torre del Castelletto (oggi rimangono solo le fondamenta) e nella caverna fortificata detta Balma del Messere a Cantarana, che infatti viene anche chiamata “Grotta dei Saraceni”. Solo a partire dal 1600 sorsero però le numerose frazioni di Ormea: fu da allora che gli abitanti si distribuirono lungo le pendici dei monti intorno al nucleo principale di fondovalle – racconta con dovizia l’autore – anche dove i declivi erano più impervi, grazie soprattutto a opere di terrazzamento in pietra a secco, come avveniva del resto nella confinante Liguria, arrivando anche ad altitudini di 1500-1600 metri sul livello del mare. Si formarono prima dei piccoli nuclei di poche abitazioni e poi vere e proprie frazioni: le famiglie richiedevano al vescovo di poter edificare la chiesa, il camposanto e di poter contare su un sacerdote per le funzioni religiose. Nel ‘700 a Ormea erano presenti 8 canonici, 22 preti celebranti e 5 chierici. Col tempo in quei piccoli centri abitati sorsero dei locali adiacenti la chiesa che potessero ospitare le lezioni per i bambini. E alla fine dell’800-inizio 900, la popolazione del Comune era distribuita equamente fra centro storico e frazioni. Secondo un percorso inverso certo è, invece, che lo spopolamento avviato nel secolo scorso riguardò quasi esclusivamente le frazioni di Ormea, non il capoluogo.

Ma veniamo alle testimonianze. Le condizioni della vita erano dure, unito anche al fatto della parcellizzazione dei terreni – racconta Giorgio Michelis – ognuno era proprietario di piccoli appezzamenti e anche sparpagliati: non c’era una grande proprietà che desse da vivere bene. Non tutte le frazioni erano proprio uguali. «Lo spopolamento di Chionea iniziò negli anni ’50 – ricorda un’altra testimone Odette Sappa –. La vita in montagna era dura, le famiglie avevano galline, qualche mucca e qualche capra, nei campi si coltivava grano e patate e nei boschi si raccoglievano le castagne che una volta secche si conservavano per un anno. La vendita di burro e uova veniva barattata con zucchero, sale e altri piccoli beni. Nei lunghi inverni, quando non si poteva lavorare nei campi, le persone più giovani andavano in Liguria o in Francia a raccogliere le olive o a tagliar legna sotto padrone, ma continuavano a risiedere in paese. Il grande esodo iniziò verso gli anni ‘60, quando le famiglie si spostarono per cercare lavoro in altri paesi. In particolare, in tanti si trasferirono a Monte Carlo per lavorare come spazzini». O alla Grascina (Aligi Michelis) quando «c’erano un tempo alcune persone che erano incaricate di venderne la carne, se era commestibile, alla comunità, e ognuno comprava la carne e pagava in base ai capi di bestiame che possedeva. Invece se moriva di malattia, la colletta veniva comunque fatta, ma ognuno pagava una quota inferiore. Questa operazione si chiamava appunto la “grascina”. Si era poveri, ma c’era un forte spirito di comunità. C’erano dei beni che venivano condivisi, tipo la stadera. E ogni abitante contribuiva a mantenere la mulattiera di accesso alla frazione o alla borgata. La “grascina” è terminata quando in una frazione rimasero solo più due famiglie. Era una specie di assicurazione o, meglio, un mutuo soccorso». Coi bambini che facevano i pastori fin da piccoli come Lidia Sappa che: «a otto anni andavo al pascolo dalla mattina alla sera. E c’era anche chi ci andava a quattro anni. Io mi portavo al pascolo delle fazze da mangiare e un pezzo di formaggio. Le fazze erano delle schiacciate fatte con farina, latte e bicarbonato di sodio come lievitante, che si cuocevano sul piano della stufa. Quando c’era la panna si aggiungeva all’impasto. Con questo pasto andavamo su fino quasi sul Pizzo d’Ormea su pascoli comunali. Per pascolare si pagava una tassa molto contenuta al Comune. Non avevamo il cane, come invece avevano altri. I temporali che mi sono presa lo so solo io. Un giorno tre della frazione vennero colpiti da un fulmine e si salvarono per miracolo. E c’erano alcuni che da Chionea salivano su fino quasi al Pizzo, verso le dieci mungevano, poi portavano giù il latte, risalivano dopo pranzo, mungevano di nuovo e scendevano alla sera».

Anche il paesaggio non è più lo stesso perché i tetti allora erano in paglia, in tutte le frazioni, salvo alcuni, pochissimi, che erano in “lose”. La paglia è stata usata (come in altre aree del Piemonte) fino a una cinquantina di anni fa. Ormea – va detto – come altre aree cadute in spopolamento è ai confini tra due regioni diverse, il Piemonte e la Liguria: ha una parlata tradizionale a sé, differente da quella dei paesi vicini, così come dal dialetto ligure e da quello piemontese. Gli studiosi della materia sostengono che derivi dalle parlate dell’ingauno (Albingaunum era l’antico nome di Albenga).  

E ora? Accentuato spopolamento, chiusura dell’attività industriale che la caratterizzava (la cartiera), fallimento dello sci di pista, rarefazione dei turisti, perdita dell’identità culturale, conclude Balocco: un quadro non certo confortante se si confronta Ormea con il passato che ha conosciuto. Cosa si fa oggi per rivitalizzare Ormea? L’autore lo chiede direttamente al sindaco, Giorgio Ferraris. «Abbiamo avuto un passato importante, a partire dalla fine dell’Ottocento, grazie alla costruzione della ferrovia, che ha consentito una facile e comoda accessibilità turistica quando i territori montani di gran parte delle valli alpine erano quasi inaccessibili e l’insediamento industriale della Cartiera, che è stata per quasi un secolo la fonte principale di occupazione per la nostra Comunità. Con queste opportunità, che si sono create più di un secolo fa, la progressiva marginalizzazione e l’abbandono delle attività agricole sui versanti montani sono stati più rapidi e precoci rispetto ad altre vallate. La crisi della Cartiera è stata una vicenda lunga e tormentata, dalla metà degli anni ‘70, quando aveva ancora più di quattrocento dipendenti oltre ad un indotto significativo, fino alla definitiva chiusura del 2007, quando vi erano ancora un’ottantina di occupati». Contestualmente – continua il sindaco – «abbiamo registrato un aumento notevole dell’età media dei nostri concittadini, perché molti giovani sono emigrati alla ricerca di opportunità di lavoro che la nostra zona non offre. Questo sia a causa del progressivo ridimensionamento e poi della chiusura della Cartiera, che per l’aumento della scolarità, che ha comportato la necessità per molti giovani di trasferirsi in aree dove esistono possibilità di collocazioni professionali adeguate e coerenti con i titoli di studio conseguiti, inesistenti, o limitatissime, sul nostro territorio. Sono cambiate le motivazioni, ma la diminuzione della popolazione residente, inevitabilmente, continua e non si registrano, al momento, inversioni di tendenza».

Tra le realtà però significative di Ormea da valorizzare è la Scuola Forestale con ricadute importanti sul territorio sia per gli stimoli culturali che dà al territorio sia per la rilevanza economica della presenza di un numero significativo di insegnanti e di studenti. Gran parte degli studenti provengono da località del Piemonte e della Liguria che, per le distanze, non sono raggiungibili quotidianamente e sono quindi costretti a risiedere a Ormea, dove molti vivono in affitto in alloggi privati e quelli delle prime classi nel convitto annesso alla Scuola, che può ospitare fino a 70 ragazzi. Oltre a rappresentare un indotto economico, la Scuola costituisce una struttura di eccellenza, unica nel suo indirizzo nel Nord Ovest, che ha collegamenti e interazioni sia con Scienze Forestali della Facoltà di Agraria dell’Università di Torino, sia con tutti gli enti che, a livello nazionale e regionale, hanno competenze e interessi nel settore forestale e più generalmente nell’economia dei territori montani. Sono state intraprese alcune iniziative per incentivare una crescita del settore, come la creazione di un consorzio e la realizzazione di un impianto cittadino di teleriscaldamento alimentato a cippato di legna.

Mi soffermo su questo punto a riprova del fatto che declinare la scommessa del Ritorno in montagna (o della Restanza che è la stessa cosa) con la parola scuola è decisivo. A Paraloup per esempio, la borgata alpina della Valle Stura che proprio la Fondazione intitolata a Nuto Revelli ha recuperato è stata accolta, su iniziativa della stessa Facoltà di Agraria di Torino la prima Scuola del Ritorno o meglio Scuola per i giovani agricoltori di montagna (Sgam) sotto la direzione del prof. Andrea Cavallero specializzato proprio in Scienze forestali. Scuola di Ritorno allora? Sì, perché tanto l’esodo dalla montagna a Ormea (come nelle vallate alpine cuneesi che ha toccato a partire dagli anni Cinquanta tassi di spopolamento superiori al 70%) è stato caotico, sgovernato, tanto i processi di Ritorno, ripopolamento, complessi, legati alla specificità dei singoli territori vanno governati. Imparare a ritornare o a restare (quando tutti i luoghi cambiano in continuazione, secondo l’antropologo Vito Teti) vuol dire anche ricostruire un tessuto sociale, riproporre quelle neocomunità tutte da costruire (nella definizione di un altro antropologo Pietro Clemente) perché sono il prodotto, a differenza che nel passato, di una scelta di vita consapevole. Per chi ritorna ma anche per chi resta. Difendere i territori dallo spopolamento e dall’abbandono vuol dire racquistare una coscienza di luogo (uso la felice espressione degli amici Territorialisti di Alberto Magnaghi) perché i luoghi non sono indifferenti.

Non è una scommessa semplice il Ritorno in montagna, chiamato, com’è a sanare una caduta anzitutto culturale: perché è proprio il venir meno di un linguaggio proprio, il farsi raccontare dagli altri – dallo sguardo ieri dei cartografi degli Stati-nazione (e da ciò che io chiamo le “geografie negative” dei margini, le frontiere, i confini) oggi dei turisti o degli investitori – la premessa dello spopolamento, dell’abbandono di intere comunità. È importante allora, come fa Fabio Balocco, reinterrogare il patrimonio territoriale che abbiamo ereditato perché nella nostra fase opaca, disorientata, priva di direzione, possiamo “riconoscerci”. Riconoscere i nostri territori, è l’impegno crescente di molti di noi, imparare a reinventare un futuro che neanche quello è rimasto in piedi, legato com’è a un’idea un progresso che ha scompensato e violato l’ambiente naturale, lo stesso disegno del Paese, schiacciato com’è tra i “troppo pieni” delle città e delle coste e i “troppo vuoti” delle montagne (appenniniche e alpine) e delle aree interne. Come Ormea, con le sue frazioni svuotate, sta a dimostrare.

Lottare per l’impossibile, ovvero prendersi cura del paesaggio rurale siciliano

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di Leonardo Ruvolo

Articolo tratto da chefare.com

Un anno e mezzo fa sono tornato a vivere ad Alcamo, la mia città natale in Sicilia, dove curo Landescape, un’istituzione d’arte contemporanea che organizza mostre, ospita residenze artistiche e progetta laboratori. Ci sono tornato dopo alcuni anni vissuti a Milano, dove seguendo un Master in Diplomacy all’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale e partecipando attivamente all’assemblea di Macao, nuovo centro per l’arte, la ricerca e la cultura di Milano, ho contribuito allala conversazione sul tema dei beni comuni: un percorso sulla loro proprietà, il loro utilizzo e la loro natura.

Tutto ciò è andato avanti fino a gennaio 2018, quando dopo aver lavorato alla Guida Galattica per Nuove Istituzioni, la campagna per negoziare la presenza di Macao all’interno degli edifici comunali di viale Molise 68, mi accorsi di essere stanco. Non ne potevo più di organizzare eventi per finanziare la vita e i progetti di Macao: era diventata una macchina tritacarne, e non ero disposto a lavorare per poche centinaia di euro pur di poter continuare a vivere a Milano. Così, ho deciso di tornare nel mio paese.

LO SPAZIO È RIDONDANTE
In Sicilia il paesaggio urbano occupa a malapena i bordi dell’isola — si infittisce soltanto attorno alle grandi città. La costa è una corteccia continua di case di mare, cemento, e sabbia. Il paesaggio rurale, invece, è un’immensa distesa di terra su cui insistono, a sorvegliare il nulla, le case di campagna. Esistono più case di quante sia possibile abitare e per ogni abitante esistono molti più spazi di quanti ne siano effettivamente utilizzati.

La proprietà privata è una tautologia ridondante: i patrimoni immobiliari richiedono manutenzione ed investimenti continui per conservare il loro valore, ed è così che —  tra le pieghe dell’accumulazione di capitale e dell’investimento senza cura — si fa spazio la distruzione stessa del sistema. Nel frattempo, la proprietà pubblica sopravvive grazie ad iniezioni di capitale europeo lasciando sul territorio dei mostri di cemento nell’attesa che qualcuno suggerisca una destinazione d’uso o semplicemente qualcosa da farci.

L’attuale stato della aree rurali è una diretta conseguenza del ruolo eccessivamente centrale dell’agricoltura come motore di sviluppo economico prevalente. Nel corso dei secoli, l’intensificarsi della produzione industriale e la crescente urbanizzazione hanno reso le aree rurali un bacino da cui prelevare forza lavoro da trasferire nei centri industriali e cittadini. Fuori da fabbriche e condomini delle aree metropolitane della piattaforma economica continentale, la Sicilia, così come altre regioni europee, è relegata alla marginalità: bassa densità di popolazione, emigrazione, bassi livelli di reddito, poche opportunità di lavoro, mancanza di investimenti pubblici e privati, distanza geografica dai centri e povertà di servizi sono solo alcuni dei problemi che condannano queste aree ad un declino economico, sociale e culturale, tale da sembrare inevitabile.

È a partire da questo scenario che nel 2015, poco prima di partire per Milano, insieme al mio caro amico Giuseppe Calamia abbiamo fondato Landescape: un progetto che allora era principalmente volto a portare in Sicilia pratiche audiovisive e performative sperimentali che ragionassero sul paesaggio e sull’ambiente naturale. Nella sua prima forma il progetto venne fuori come una rassegna super punk all’interno della Riserva Naturale del Bosco d’Alcamo, successivamente abbiamo trovato ospitalità all’Orto Botanico di Palermo.

La nostra proposta era ingenua, ma spontanea: per una notte l’Orto Botanico di Palermo si popolava di performance e installazioni che avevano a che fare con l’arte contemporanea. Landescape si è manifestato in questa forma per 3 edizioni, la prima ad Alcamo, durante le quali abbiamo incassato un sacco di critiche perché i modi erano dilettanteschi. Per quanto provassimo a replicare modelli di produzione artistica che in altri contesti avevano funzionato, in Sicilia tutto diventava molto difficile. Infatti era ed è difficile dare un valore economico a queste esperienze culturali, trovare maestranze e professionalità in grado di realizzare i progetti che immaginavamo, fare i conti con un pubblico che non conosce quello che nel quadrante di Milano, Berlino, Parigi, Londra è normale — se non addirittura banale.

Il 2018 è stato uno spartiacque. Una volta ristabilito definitivamente in Sicilia il centro delle mie operazioni, mi sentivo soffocare, avevo bisogno di una strategia per sopravvivere. Mi buttai a capofitto nella natura e nel paesaggio, l’unica cosa che riuscisse a calmare i miei stati d’animo inquieti: un giorno sì e l’altro pure controllavo il costo dei biglietti per tornare a Milano. Più andavo avanti e più entravo nel paesaggio rurale, più comprendevo che era esso stesso a suggerirmi la strategia. Mi si apriva dinnanzi una prospettiva tanto desolante quanto eccitante: processi da iniziare e spazi da occupare. L’esperienza sul campo a Macao mi aveva insegnato che là dove ci sono spazi da occupare è necessario attivare dei processi di cura collettivi per rivendicare diritti di libertà, sociali e culturali. Inoltre ho anche avuto modo di capire che senza una una garanzia istituzionale, presto o tardi i processi attivati non sopravvivono alle logiche del mercato della produzione culturale.

Il 2018 è lo stesso anno in cui arriva Manifesta a Palermo. L’Orto Botanico, dove noi eravamo presenti, diventa una location centrale per la biennale.Sfrattati da Palermo, decidiamo di tornare ad Alcamo e di cambiare completamente ciò che stavamo facendo, mettendo in relazione il capitale territoriale locale con quello umano costruito negli anni passati a Milano. Una nuova fase per il progetto Landescape si apriva grazie alla condivisione delle fatiche e della progettazione con un altro caro amico, Francesco Stabile.

Insieme, ad Alcamo, abbiamo creato una residenza artistica dove da ottobre 2018 ad oggi abbiamo ospitato più di 70 artisti, attivisti, professionisti della produzione culturale, prodotto 35 eventi tra mostre, concerti, workshop, party e talk, utilizzato 20 diverse location pubbliche e private, moltiplicato per 10 il budget di produzione, messo in rete più di 30 aziende locali dell’agroalimentare, dell’artigianato, del turismo e dell’edilizia. Non sono grandi numeri, ma per Alcamo — un paese di 45.000 abitanti in provincia di Trapani — si tratta di un traguardo che non avremmo mai pensato di raggiungere e in parte è stato possibile grazie alla garanzia economica del Comune del paese ed il continuo flusso di artisti.

LA CASA VICINA AL BOSCO
Ma budget e artisti non sarebbero bastati a far sopravvivere ciò che stavamo facendo: guardando indietro, il reale valore che abbiamo generato è quello che deriva dalla cura delle relazioni tra i vari attori coinvolti. In queste relazioni sono inscritte le esperienze di azioni fatte insieme, che diventano memorie e vissuti in grado di alimentare l’orizzonte immaginario verso cui tendiamo nell’incessante sforzo di sovvertire il reale. Queste relazioni e questo stare insieme avevano bisogno di una casa

Così abbiamo creato uno spazio, si chiama Posto Segreto, un laboratorio all’aria aperta tra vigneti e mandorle. PS  è fondamentale nell’infrastruttura che stiamo creando per assicurare una base sicura a tutti quelli che fanno parte del nostro network, ma al contempo creare un’opera d’arte vivente che rappresenti il tentativo incessante di migliorare le nostre condizioni di vita.

È per questo motivo che siamo ripartiti dalle basi di tutte le micro-società primitive: alimentazione e relazioni umane. Abbiamo messo a sistema il network di contadini,produttori locali e artisti in residenza per fare di Posto Segreto lo snodo principale di questa rete. Puoi passare per scambiare prodotti, organizzare una cena, fermarti a dormire, lavorare nei campi, ma soprattutto incontrare i forestieri.

L’incontro tra i locali e gli artisti che invitiamo genera delle energie inaspettate dal quale spontaneamente si creano situazioni confortevoli in cui ciascuno è libero di esprimersi come meglio crede. È così che è nato il progetto di rigenerazione del MACA, il Museo d’Arte Contemporanea di Alcamo: frutto dell’incontro esplosivo tra Landescape e R.I.S.A. – Research Institute for Spontaneous Action, che abbiamo fondato insieme a Giovanni Bozzoli e Alessandro Veneruso e che oggi include anche Anna Brussi, Francesca Maciocia, Federica Carenini, Francesco Stabile e Vitaly Weber. Contestualmente Landescape è diventata un’associazione e oggi conta una ventina di membri. Fare questi nomi e ripercorrere certe tappe non è semplice narcisismo, ma è il tentativo di ricostruire quel complesso reticolo di relazioni senza le quali questa storia non si potrebbe raccontare.

Insieme abbiamo immaginato Alcamo come un campo da gioco in cui gli attori, i luoghi, i materiali, i medium nonché le relazioni che si stabiliscono tra di loro disegnano una mappa. In questo senso naturaruralefolklorecultura culinaria e religione sono quelle aree tematiche che raccontano lo spirito di Alcamo. Allo stesso tempo diventano il contesto all’interno del quale invitare un artista a rappresentare il contemporaneo e la stretta connessione con la tradizione della popolazione autoctona. Gli artisti coinvolti sono invitati a partire dalla necessità di creare una prossimità tra la loro opera e gli altri attori coinvolti – fruitori museo, artisti locali, privati fornitori di materiali, proprietari delle location, istituzioni, professionalità dell’arte, media. Ciò assicura che l’intervento possa effettivamente entrare in relazione con la città e la sua comunità.

NUOVE MITOLOGIE PER VECCHIE ISTITUZIONI
Mentre io sogno di vedere funzionare un Museo d’Arte Contemporanea nel paesaggio rurale, mio nonno — come molti altri siciliani — sognava di realizzare una cantina all’interno di “ ‘u macasenu ” di campagna. Un’istituzione culturale contemporanea che racconti una comunità e il suo territorio necessità di un’opera di ricostruzione del paesaggio all’interno del quale è situata, per questo sto scrivendo una mitologia che racconti il paesaggio contemporaneo, i suoi attori e i suoi rituali.

Questo racconto inizia il 1° maggio 1947, la data dell’eccidio di Portella della Ginestra: quando  uccisi i contadini che manifestavano contro il latifondismo a favore dell’occupazione delle terre incolte e festeggiavano la recente vittoria del Blocco del Popolo, l’alleanza tra i socialisti di Nenni e i comunisti di Togliatti, alle elezioni dell’assemblea regionale siciliana.  I braccianti si erano uniti attraverso l’intera isola per rivendicare la proprietà delle terre incolte e la loro redistribuzione, ma il movimento venne represso nel sangue. Pochi anni dopo, nel 1950, viene approvata la riforma agraria, che… prende il via in tutta Italia grazie alla spinta prorompente che arrivava dalle lotte del movimento contadino siciliano. Ma in realtà questa storia è quella di una rivoluzione annunciata ma inattuata — come impedita da qualcosa di inatteso.

Ad Alcamo, tutti gli anziani che incontro mi dicono che in effetti negli anni ‘50 la rivoluzione vera è un’altra: resine melammina-formaldeide, poliestere, nylon, polietilene, polipropilene isotattico: il boom economico. Da quel momento nessuno avrebbe dovuto più temere “‘u pitittu” e gli odori che esalavano dai fuochi accesi nelle campagna cominciavano a sapere di morte.

È a questo punto, però, che si scopre che il consumismo come nuovo modello di sviluppo economico non assicura la creazione di ricchezza. I braccianti agricoli, infatti, facevano ancora la fame perché sostituiti dai trattori: appendevano le zappe ai muri e decidevano di partire con destinazione il Nord. A cavallo degli anni ‘60 e ‘70, un nuovo modello di sviluppo economico si diffonde su tutta l’isola: l’abusivismo edilizio. In quegli anni chi disponeva di un po’ di capitale o di qualche garanzia per ottenere un prestito comincia a costruire case improbabili, villette sulla sabbia e palazzi a tre-piani; di cui se andava bene terminavano il piano terra e il primo piano, mentre gli altri due li destinavano ai figli lasciandoli incompiuti.

Basta fare un giro ad Alcamo, oggi, per trovare centinaia di esempi di incompiuto nelle zone di nuova espansione: è un paesaggio che si estende dalla pedemontana alle zone costruite dopo il terremoto del ’68 — da Alcamo Marina alle arterie che portano al mare. Piani di cemento su piani di cemento che aspettano figli che non vogliono più tornare a casa. Quest’opera di deruralizzazione della Sicilia è collegata all’attesa della rivoluzione borghese industriale, che non è mai avvenuta e mai avverrà. Il paesaggio porta i segni di questa attesa vana e nel cemento, che ancora oggi scorre a tonnellate, ha trovato la propria cura. Ma la modernità ha una data di scadenza, quella della durata del cemento.

Rapidamente, ecco arrivare una nuova rivoluzione a promessa di un futuro roseo. È il 1992 e l’Italia promette ai suoi partner europei di diventare un membro virtuoso e accede al club dei paesi che avrebbero introdotto l’Euro, la nuova moneta, per amplificare e aumentare la velocità degli scambi commerciali tra gli stati nazionali europei. Le aree rurali diventano la meta di un modo di fare turismo integrato alla agri-cultura locale, e l’opportunità si trasforma presto in modello di sviluppo. È così che assistiamo, negli ultimi anni, alla proliferazione degli Airbnb che promettono accesso al mare e wi-fi gratuito, di escursioni in natura con quad e motoscafi fiammanti, di vendemmie per giovani tedeschi e workshop di “maccarruna cu la sarsa” per francesi rompicoglioni.

In questo disegno niente va messo da parte, il modello consumista e il patrimonio immobiliare costituiscono l’infrastruttura materiale su cui gira questo modello di sviluppo contemporaneo, mentre la agri-cultura, il patrimonio immateriale di conoscenza da cui attingere per dare una parvenza di realità alla nuova economia.

Pre-post Covid-19, un nuovo medioevo

È in questo scenario che un pattern si fa evidente: l’orizzonte rivoluzionario di cui ha sempre vissuto la Sicilia si trasforma ciclicamente nel motore principale della sua marginalizzazione. I processi di sviluppo economico si finanziarizzano rapidamente e generano, nuovamente, la domanda di un’altra rivoluzione. Nel frattempo, tutto rimane uguale.

La storia della capacità del capitale di territorializzare qualsiasi cosa non è, ovviamente, solo siciliana: nel mondo pre-Coronavirus lo stesso sentore lo si stava avendo con il montante movimento ecologista, invischiato nelle contraddizioni emerse a causa dei compromessi che ne hanno facilitato proprio la diffusione. Tra mercificazione in slogan, e prodotti, moda e comunicazione diventa chiaro il problema di una di una lotta che non si auto-organizza e prende per buona l’infrastruttura del sistema stesso che combatte.

La domanda circa quale lotta ingaggiare, come organizzarla e con quale strategia è al centro di tanti progetti che come istituzione culturale promuoviamo, nelle premesse e nell’approccio Prima della quarantena insieme a RISA, il Dirty Art Department del Sandberg Instituut e a Macao stavamo progettando la terza edizione della residenza artistica Wandering School:  immaginavamo un intervento spontaneo all’interno della settimana del Fuorisalone che rappresentasse a livello simbolico, estetico e speculativo lo snervante fatica di tutti i precariche non riescono a mettersi insieme, in quanto divisi dai processi produttivi che li mettono in competizione tra di loro.

Della pratica di quel progetto, per ora, non se ne farà nulla — ma le premesse sono ancora lì, esasperate dall’esplosione della pandemia. La parola del momento è together, e non posso nascondere che anche io la uso parecchio. È lo slogan principale della campagna elettorale di Bernie Sanders e Alexandra Ocasio-Cortez, e che già sappiamo essere sacrificabile sull’altare del progressismo di sinistra bianco e maschilista, rappresentato da Joe Biden. La stessa parola può essere riciclata come slogan delle nuove pubblicità di Vodafone. Per diventare, infine, il mantra anaffettivo di tutti i politici di destra o sinistra, a cui gli studi di comunicazione suggeriscono come entrare nella testa delle persone.

Con la definitiva sconfitta del movimento operaio, e la contestuale trasformazione delle persone in monadi votate al consumo, la socialità, il semplice stare insieme, diventa un bene da consumare, accompagnato da un po’ di intrattenimento culturale. L’aver reso la socialità e la cultura beni di consumo ha di fatto neutralizzato le intenzioni degli artisti, degli attivisti o di quanti in questi anni hanno creduto di star facendo arte politica. L’ipocrisia del sistema di produzione culturale è venuta definitivamente a galla quando una volta chiusi bar, teatri, club, cinema, musei, centri culturali ecc., abbiamo di fatto scoperto la natura non essenziale di un certo tipo di lavoro culturale.

Il semplice e spontaneo stare insieme diventa il campo dove condurre lo scontro. Per questo motivo, con gli amici di sempre, oggi, più che mai si litiga; è difficile fidarsi, la competizione e la frustrazione si insinuano in tutte le comunità. I nostri privilegi, piccoli o grandi che siano, sono allo stesso tempo l’ostacolo e l’opportunità di un miglioramento del nostro stare insieme. Per questo non ci si può abbandonare alla depressione della telecomunicazione: i corpi scalpitano, ardentemente desiderano stare insieme, lottare e farsi comunità. Curare il comune oggi è in teoria impossibile, e per questo sollecita una pratica risoluta che sa che tempo e spazio sono limitati. Questo conflitto è interiore, dell’individuo contro se stesso, della propria coscienza contro la propria morale. A partire da questa consapevolezza, spesso tradita, i discorsi contemporanei rivendicano giustamente migliori condizioni di lavoro e più reddito. In realtà in gioco c’è la sopravvivenza della comunità, che allo stesso tempo è la piattaforma da cui avanzare successive rivendicazioni.

Prima del Coronavirus immaginavamo di fare di Posto Segreto per questa stagione il centro di una serie di workshop, performance ed eventi. La pandemia ha chiesto una modifica della strategia sul breve periodo. Adesso, come i monasteri nel Medioevo per il mondo che verrà ospiteremo i pellegrini. Stiamo sognando.

Potrà il PNRR rilanciare le aree interne?

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di Elisa Corazza

Articolo tratto da La rivista Il Mulino – 9 giugno 2022

Per come è strutturato il Piano e per quelle che sono le condizioni, anche amministrative, delle aree, è difficile pensare che in un tempo breve le aree interne possano effettivamente beneficiare di questa occasione di rilancio.

Chiedersi se il Pnrr riuscirà a rilanciare le aree interne impone una riflessione sull’impatto complessivo del Piano, per coglierne gli effetti sugli equilibri tra i territori e comprenderne le effettive potenzialità.

Come è stato efficacemente osservato da Gianfranco Viesti nell’introduzione a questo “speciale”, il Piano di ripresa italiano non vede i territori, nel senso che non offre quella lettura trasversale che consente di far emergere la diseguaglianza territoriale.

Tra i divari rimossi, quelli che colpiscono le aree interne risultano ancor più nascosti, quasi invisibili nelle pieghe nascoste dell’Italia rugosa, fatta di microluoghi lontani e dimenticati, le cui difficoltà non vengono censite né denunciate perché interessano pochi o nessuno. Trattandosi, inoltre, di luoghi distribuiti lungo tutto lo stivale (l’Italia delle aree interne si snoda dalla val Chiavenna al Salento, passando per l’Appennino centrale) la loro difesa non trova cittadinanza nelle storiche rivendicazioni identitarie che hanno caratterizzato la questione territoriale italiana.

Eppure, da più parti si sente dire che il Pnrr rappresenta per le aree interne un’occasione unica, in grado di invertire l’inesorabile curva demografica che ha portato allo spopolamento di luoghi, paesi, aree, determinando non solo la perdita di una memoria che per secoli ha costituito la spina dorsale della cultura italiana, ma anche rischi concreti per la cura dell’ambiente e del territorio (intervenendo al Forum delle aree interne a Benevento il ministro Giovannini ha sottolineato che la cura del territorio è essenziale per evitare il collasso dell’ecosistema).

Probabilmente è presto per misurarsi con queste aspettative (si veda l’Accordo stipulato tra il Centro di ricerca per le aree interne e gli Appennini (AriA) e Istat, “per la realizzazione di una collaborazione su le conseguenze del Recovery Plan sulle Aree Interne”); è possibile però individuare nella struttura del piano e nei metodi a cui è affidata la sua realizzazione una serie di fattori che, se ignorati, possono minarne dalle fondamenta le capacità di successo, tenendo conto delle caratteristiche sociali, economiche e culturali delle aree interne. Deve essere inoltre osservato che la scelta di far confluire in un’unica strategia di ripresa tutti i fondi disponibili (nazionale ed europei) depotenzia in parte gli interventi sulle aree interne, che godevano già, grazie al lavoro impostato da Fabrizio Barca con la strategia nazionale per le Aree Interne (Snai), di proprie specifiche linee di finanziamento.

La scelta di far confluire in un’unica strategia tutti i fondi disponibili depotenzia in parte gli interventi sulle aree interne, che godevano già di specifiche linee di finanziamento

Nella struttura del Piano di ripresa è prevista come è noto una specifica missione dedicata alla coesione sociale e territoriale, all’interno della quale sono rinvenibili anche interventi dedicati alle aree interne. Sono state avviate, ad esempio, linee di finanziamento dedicate al potenziamento infrastrutturale per migliorare strade e presidi sociali, nella speranza di creare sistemi, o ecosistemi, che siano in grado di stimolare l’innovazione. Si tratta di interventi che, al momento, hanno attivato soprattutto progetti di rigenerazione urbana nei piccoli centri, ai quali si intreccia il sostegno alle aree colpite dal terremoto, che coincidono in gran parte con aree interne.

Il riferimento alle strade, e in generale alle infrastrutture di mobilità che sono il vero punto dolente delle aree interne, consente di allargare il raggio della valutazione del Piano, per cogliere, al di fuori degli interventi specifici di coesione territoriale, alcune linee del Pnrr che producono, in maniera indiretta, un impatto sulle aree interne. È infatti soprattutto in questa visione più allargata che si intravvedono le potenzialità per i luoghi marginali: la questione aree interne si compone, nel Piano di ripresa, di diverse poste, molte delle quali si ritrovano tra le pieghe di altre missioni.

Gli interventi concernenti la transizione ecologica, ad esempio, avranno certamente un impatto sui territori delle aree interne, alle prese, da decenni, con problemi di dissesto idrogeologico o impegnati nella tutela della biodiversità, in territori in cui lo spopolamento si misura anche in termini di vulnus ambientale. La questione sanitaria, inoltre, ha rappresentato negli anni uno dei fattori di storico divario delle aree interne (tanto che la distanza dai poli sanitari costituisce un indice di perifericità ai fini della Snai), sicché si può certamente affermare che l’attuazione della missione 6 costituirà un banco di prova fondamentale per il miglioramento della vita delle aree interne. Anche senza volere scomodare la telemedicina, che richiede, per poter offrire un servizio efficace, una cultura digitale adeguata nella popolazione di destinazione (le aree interne sono popolate in prevalenza da anziani), gli interventi più promettenti sono quelli che riguardano la riforma dell’assistenza medica di prossimità, dove le Case di Comunità previste dal DM 71 potranno fare effettivamente la differenza per la medicina territoriale delle “terre d’osso” (v. M. Rossi Doria, La polpa e l’osso: scritti su agricoltura, risorse naturali e ambiente, L’Ancora del Mediterraneo, 2005), ridotta allo stremo da anni di politiche sanitarie tese ad accorpare in grandi centri ospedalieri ogni presidio di cura.

Si potrebbe andare molto oltre e analizzare tutte le voci del Piano, cercando tra le pieghe dei diversi finanziamenti gli interventi che sfidano la questione aree interne (che dire allora del c.d. Bando Borghi, l’intervento di rigenerazione culturale e turistica che premia – seguendo il motto “The Winner takes it all” – alcuni “gioielli” tra i borghi italiani? (si pensi all’appello lanciato dalla piattaforma Borghi e rivolto al ministero della Cultura per chiedere il ritiro del bando della linea A). O delle infrastrutture digitali, che risultano essenziali per poter anche solo sperare che il fenomeno del cd. Southworking vada a beneficio anche delle aree interne? O al tema, rilevantissimo, delle comunità energetiche?).

È tuttavia più utile segnalare alcuni snodi che paiono essenziali per una corretta attuazione del piano, rispetto ai quali la cecità nei confronti delle aree interne potrebbe effettivamente lasciare le terre d’osso con un pugno di mosche in mano.

La prima questione attiene al metodo di erogazione del finanziamento, che, come è noto, si fonda sulla messa a bando delle diverse attività. Il metodo, mutuato dalla cultura del diritto pubblico, intende rispondere al principio della premialità, in reazione al criterio del cd. finanziamento “a pioggia” e ad ogni idea di pianificazione economica. È già stato scritto, tuttavia, che il metodo in questione rischia di lasciare a piedi proprio quei territori che più ne avrebbero bisogno, sostanzialmente per mancanza del know how che è il presupposto necessario per vincere il bando. Ciò è ancor più vero nel contesto delle aree interne, dove le caratteristiche di isolamento e spopolamento sono fonte di una strutturale carenza di capitale umano.

Nelle aree interne, affidare tutto ai bandi non solo riproduce le condizioni di diseguaglianza cui i bandi vorrebbero rimediare ma innesca una vera e proprio inversione tra i fini e mezzi

Nelle aree interne, affidare tutto ai bandi non solo riproduce le condizioni di diseguaglianza cui i bandi vorrebbero rimediare (secondo un meccanismo che è comune a tutti di divari territoriali), ma innesca una vera e proprio inversione tra i fini e mezzi. Per rispondere in modo efficace ai bandi occorrerebbe, infatti, avere già colmato il divario (in termini di massa critica, capacità di innovazione, personale tecnicamente preparato ecc.) che con il bando si intende colmare. Una spirale senza fine.

Sul piano istituzionale, poi, il fulcro dell’attivazione è affidato ai comuni, cui è mancato, come effetto delle note politiche di austerity imposte agli enti territoriali, quel fisiologico ricambio generazionale essenziale per la Pubblica Amministrazione – come per ogni organizzazione – se l’obiettivo è innovareNei comuni delle aree interne, in cui prevalgono le dimensioni piccole o piccolissime (oltre la metà dei comuni italiani si trova nelle aree interne), l’impatto della riduzione del personale e del mancato turn over ha effetti amplificati perché non può essere assorbito da numeri ed energie che comunque circolano nei grandi centri urbani. Né è immaginabile che la soluzione del problema si ritrovi nell’assunzione – a termine – di facilitatori o esperti di politiche territoriali: proprio perché prive di quel tessuto spontaneo che si attiva comunque nei grandi centri, le aree interne hanno bisogno, per rilanciarsi, di contare su una Pubblica Amministrazione efficiente, preparata e dedicata in modo stabile al proprio sviluppo. L’assenza, tra l’altro, di un vero e proprio settore privato rende le aree interne particolarmente esposte a interventi “predatori” da parte di imprese prive di un effettivo radicamento sul territorio ed interessate essenzialmente ai bandi.

Senza questi accorgimenti (attenuare la “bandomania” e irrorare i comuni di personale preparato e stabile) è difficile pensare che in un tempo breve come è quello che ci separa dal 2026 le aree interne possano effettivamente approfittare di questa grande occasione di rilancio. Certo verranno realizzati – e del resto sono già in fase di avvio – interventi di rigenerazione nei piccoli paesi, che rischiano tuttavia di restare confinati nella sfera della mera ristrutturazione, perché non si può affidare al patrimonio immobiliare la funzione salvifica di rilanciare un territorio (è curioso che anche il lessico che circonda il dibattito pubblico sul Pnrr sia ampiamente mutuato dall’ingegneria civile: “messa a terra”, “progetti cantierabili” ecc.). La riattivazione di un luogo – ancor più se remoto – è questione assai complessa, che passa necessariamente attraverso il rebus della creazione di lavoro, finora autentico motore della demografia.

Se i luoghi sono anche uno spazio politico, le aree interne avrebbero bisogno, in questa fase di ripresa, di quella visione comune che ha fatto emergere, una decina di anni fa, la questione aree interne come questione nazionale: servirebbe, in altre parole, un filo rosso che consenta di superare la micro-frammentazione dei luoghi marginali. In assenza di un tale approccio, il vero rischio è di ritrovarsi con una manciata di comuni (o di “borghi”) rimessi, sì, a nuovo, ma a beneficio, tuttalpiù, di cittadini delle aree urbane che li hanno scelti come buen retiro (in riferimento al dibattito innescato da Stefano Boeri sul ritorno ai borghi, si veda lo speciale “Il Centro in periferia” della rivista “Dialoghi Mediterranei”, n. 48/2021).

Felici & Conflenti

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Felici & Conflenti si occupa di ricercare e trasmettere la cultura coreutica e musicale della Calabria tirrenica centrale. L’associazione organizza eventi residenziali in cui appassionati e ammiratori delle tradizioni musicali Calabresi incontrano musicisti e danzatori di tradizione. Le attività dell’associazione culminano nel grande evento estivo che si svolge ogni anno nell’ultima settimana di luglio. Felici & Conflenti supporta ed implementa principi di turismo culturale responsabile attraverso il coinvolgimento degli abitanti della zona e di agricoltura biologica a conduzione familiare. Focalizzato sulla convivialità e la trasmissione orale, il progetto è rigenerato e trasformato costantemente secondo i bisogni della comunità.

Il territorio del Reventino è caratterizzato da una cultura musicale omogenea, nel repertorio e negli strumenti: storicamente, braccianti e pastori scendevano in piazza con organetti e zampogne in occasione di feste religiose e secolari.
Conflenti, grazie all’importante pellegrinaggio della Madonna di Visora, si è caratterizzato come centro di diffusione della musica per l’area: l’evento religioso infatti attraeva tutta la comunità del  raggio di 20/30 km e, in quell’occasione, i musicisti suonavano insieme scambiandosi saperi e repertori.
A seguito del boom economico degli anni ’60 però, oltre al forte spopolamento che ha interessato l’area, si è assistito a un graduale rifiuto della cultura popolare che ha portato all’allontanamento di intere generazioni dalle tradizioni musicali tipiche dell’area.

L’associazione Felici & Conflenti, che nasce da un’idea di Alessio Bressi e Antonella Stranges e oggi conta 52 soci, mira la riscoperta e alla valorizzazione della cultura musicale e coreutica dell’area del Reventino promuovendo attività di ricerca, condivisione dei saperi e creando occasioni di incontro con e tra il territorio.

Dal 2014, organizza ogni anno una grande festa di comunità con seminari, workshop e attività di turismo esperienziale. Questa iniziativa è momento di incontro tra danzatori, musicisti, ricercatori provenienti da tutta Europa con gli abitanti e i portatori della tradizione locale, nel contesto di un sistema di trasmissione orizzontale dei saperi in cui oralità e condivisione hanno un ruolo fondamentale.

Grazie al lavoro dell’associazione si sta assistendo a un cambio di percezione e ad un graduale riavvicinamento alla cultura tradizionale locale, soprattutto da parte di giovani abitanti, che porta alla ritessitura di legami intergenerazionali per la trasmissione di saperi e ad una rinnovata partecipazione musicale spontanea ad eventi e feste.
Felici & Conflenti sta inoltre sviluppando nuovi progetti di rete con diverse realtà presenti nell’area per valorizzare ulteriormente le tradizioni locali e contribuire allo sviluppo economico e sociale dell’intero Reventino.

Conflenti (CZ)
Associazione Felici&Conflenti
www.felicieconflenti.it

Borgata Paraloup

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Paraloup sede della prima banda partigiana Italia Libera con Duccio Galimberti, Dante Livio Bianco, Nuto Revelli e Giorgio Bocca nel settembre del 1943 ci parla di memoria ma anche di futuro: di nuove forme di economia sostenibile, di neocomunità in fieri intorno all’Associazione fondiaria di recente istituzione.

 

Nel 2006 la Fondazione Nuto Revelli decide di riportare in vita la celebre borgata di  Paraloup (filmata nei  documentari di P. Gobetti (figlio di Piero), Prime bande e di Emanno Olmi e Corrado Stajano, Nascita di una formazione partigiana) acquisendo le baite dagli abitanti in gran parte emigrati in Francia. L’intento è stato di salvare un simbolo della storia della lotta di Liberazione ma anche di ridare vita a un luogo in patente abbandono come era (ed è ) in gran parte la montagna alpina non turistica in senso stretto. Si contano infatti più di 90 antichi abitati abbandonati solo tra i Comuni più vicini (Rittana appunto e Valloriate). Le forme stesse degli edifici recuperati  circa due anni dopo col progetto, pluripremiato, di Paraloup (ad opera degli architetti D. Regis, V. Cottino, D. Castellino, G. Barberis) nel loro mix tra ciò che rimane in piedi del passato (le pietre cadenti delle antiche baite che si raccolgono alle fondamenta) e i materiali del presente (i grandi scatoloni in legno sovrapposti alle rovine) si prestano a “porre in comunicazione” mondi diversi: il tempo breve dei 20 mesi della Resistenza e la lunga durata dell’antica cultura della montagna.  Il recupero di Paraloup ha permesso di poter contare su una grande biblioteca per incontri  ed eventi, di un bar e ristorante, con cuoca e host  residenti (con un direttore esecutivo) di circa 20 posti letto disponibili, di un teatro all’aperto (uno dei primi esperimenti di teatro in quota) e di un importante museo interattivo digitale Il museo dei racconti. Le stagioni di Paraloup con schermo a parete e touch screen. Oltre che del Laboratorio Archivio della memoria delle donne intono a cui si è creato una Community di donne impegnate in progetti  di ritorno o studiose di antropologia alpina.  Paraloup tuttavia non è solo un Centro culturale (lo si può definire un Microsistema culturale e agricolo integrato) perché ospita l’attività di un pastore con il gregge di capre e un caseificio: parte integrante dell’Associazione fondiaria Valli Libere che si è creata negli anni. A Paraloup si tiene, ad anni alterni, nell’ambito dell’istituzione Asfo la Scuola dei giovani agricoltori di montagna (in collaborazione con la Rete del ritorno) sotto la guida  dei docenti dell’Università di Agraria di Torino ( e che prevede stage nelle aziende agricole del Piemonte).

Borgata Paraloup (Cn) – Alpi Marittime 1350 m
frazione del Comune di Rittana, provincia di Cuneo (Valle Stura)

Fondazione Nuto Revelli e Rifugio Paraloup Srl Impresa sociale

www.nutorevelli.org
https.//paraloup.it