Ormea, una scommessa di ritorno

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Di Antonella Tarpino

Articolo pubblicato su volerelaluna.it

Nella premessa al suo libro Un’Italia che scompare. Perché Ormea è un caso singolare? Fabio Balocco scrive che quando ripercorre la Val Tanaro da Ceva al Colle di Nava è attirato dalle indicazioni dei poveri borghi addossati «alla destra come alla sinistra orografica» e si immagina quanti abitanti ancora vi risiedano. Queste parole mi han fatto pensare a una riflessione di Nuto Revelli riportata nel suo Mondo dei vinti sommerso, perduto, quando descrive quei paesaggi divenuti incolti, finiti nell’abbandono: «Ormai il paesaggio lo leggo sempre e soltanto attraverso il filtro delle testimonianze. Sono le testimonianze che mi condizionano che mi impongono un confronto continuo tra il passato lontano e il presente. Attraverso quelle storie vedo il mosaico antico delle colture e dei colori anche dove è subentrato il gerbido, dove ha vinto la brughiera, vedo le borgate piene di gente e non in rovina, anche dove si è spenta la vita». Perché quei territori in abbandono li si riescono a leggere solo attraverso gli occhi di chi vi ha abitato, il disegno del lavoro impresso sui campi o sui sentieri dei pastori. Così è nel caso delle tante voci dei testimoni che Fabio Balocco raccoglie ad Ormea e nelle sue frazioni, uno dei Comuni che più hanno subito la piaga dello spopolamento.

Brevi cenni sulle sue origini perché non tutti sanno che il cuneese è stato a lungo area di saccheggio dei Saraceni insediati a Fraxinetum tra Provenza e Costa Azzurra. Tracce della loro presenza sono registrate fin dall’890 e rinvenute proprio nel territorio del Comune di Ormea nella torre del Castelletto (oggi rimangono solo le fondamenta) e nella caverna fortificata detta Balma del Messere a Cantarana, che infatti viene anche chiamata “Grotta dei Saraceni”. Solo a partire dal 1600 sorsero però le numerose frazioni di Ormea: fu da allora che gli abitanti si distribuirono lungo le pendici dei monti intorno al nucleo principale di fondovalle – racconta con dovizia l’autore – anche dove i declivi erano più impervi, grazie soprattutto a opere di terrazzamento in pietra a secco, come avveniva del resto nella confinante Liguria, arrivando anche ad altitudini di 1500-1600 metri sul livello del mare. Si formarono prima dei piccoli nuclei di poche abitazioni e poi vere e proprie frazioni: le famiglie richiedevano al vescovo di poter edificare la chiesa, il camposanto e di poter contare su un sacerdote per le funzioni religiose. Nel ‘700 a Ormea erano presenti 8 canonici, 22 preti celebranti e 5 chierici. Col tempo in quei piccoli centri abitati sorsero dei locali adiacenti la chiesa che potessero ospitare le lezioni per i bambini. E alla fine dell’800-inizio 900, la popolazione del Comune era distribuita equamente fra centro storico e frazioni. Secondo un percorso inverso certo è, invece, che lo spopolamento avviato nel secolo scorso riguardò quasi esclusivamente le frazioni di Ormea, non il capoluogo.

Ma veniamo alle testimonianze. Le condizioni della vita erano dure, unito anche al fatto della parcellizzazione dei terreni – racconta Giorgio Michelis – ognuno era proprietario di piccoli appezzamenti e anche sparpagliati: non c’era una grande proprietà che desse da vivere bene. Non tutte le frazioni erano proprio uguali. «Lo spopolamento di Chionea iniziò negli anni ’50 – ricorda un’altra testimone Odette Sappa –. La vita in montagna era dura, le famiglie avevano galline, qualche mucca e qualche capra, nei campi si coltivava grano e patate e nei boschi si raccoglievano le castagne che una volta secche si conservavano per un anno. La vendita di burro e uova veniva barattata con zucchero, sale e altri piccoli beni. Nei lunghi inverni, quando non si poteva lavorare nei campi, le persone più giovani andavano in Liguria o in Francia a raccogliere le olive o a tagliar legna sotto padrone, ma continuavano a risiedere in paese. Il grande esodo iniziò verso gli anni ‘60, quando le famiglie si spostarono per cercare lavoro in altri paesi. In particolare, in tanti si trasferirono a Monte Carlo per lavorare come spazzini». O alla Grascina (Aligi Michelis) quando «c’erano un tempo alcune persone che erano incaricate di venderne la carne, se era commestibile, alla comunità, e ognuno comprava la carne e pagava in base ai capi di bestiame che possedeva. Invece se moriva di malattia, la colletta veniva comunque fatta, ma ognuno pagava una quota inferiore. Questa operazione si chiamava appunto la “grascina”. Si era poveri, ma c’era un forte spirito di comunità. C’erano dei beni che venivano condivisi, tipo la stadera. E ogni abitante contribuiva a mantenere la mulattiera di accesso alla frazione o alla borgata. La “grascina” è terminata quando in una frazione rimasero solo più due famiglie. Era una specie di assicurazione o, meglio, un mutuo soccorso». Coi bambini che facevano i pastori fin da piccoli come Lidia Sappa che: «a otto anni andavo al pascolo dalla mattina alla sera. E c’era anche chi ci andava a quattro anni. Io mi portavo al pascolo delle fazze da mangiare e un pezzo di formaggio. Le fazze erano delle schiacciate fatte con farina, latte e bicarbonato di sodio come lievitante, che si cuocevano sul piano della stufa. Quando c’era la panna si aggiungeva all’impasto. Con questo pasto andavamo su fino quasi sul Pizzo d’Ormea su pascoli comunali. Per pascolare si pagava una tassa molto contenuta al Comune. Non avevamo il cane, come invece avevano altri. I temporali che mi sono presa lo so solo io. Un giorno tre della frazione vennero colpiti da un fulmine e si salvarono per miracolo. E c’erano alcuni che da Chionea salivano su fino quasi al Pizzo, verso le dieci mungevano, poi portavano giù il latte, risalivano dopo pranzo, mungevano di nuovo e scendevano alla sera».

Anche il paesaggio non è più lo stesso perché i tetti allora erano in paglia, in tutte le frazioni, salvo alcuni, pochissimi, che erano in “lose”. La paglia è stata usata (come in altre aree del Piemonte) fino a una cinquantina di anni fa. Ormea – va detto – come altre aree cadute in spopolamento è ai confini tra due regioni diverse, il Piemonte e la Liguria: ha una parlata tradizionale a sé, differente da quella dei paesi vicini, così come dal dialetto ligure e da quello piemontese. Gli studiosi della materia sostengono che derivi dalle parlate dell’ingauno (Albingaunum era l’antico nome di Albenga).  

E ora? Accentuato spopolamento, chiusura dell’attività industriale che la caratterizzava (la cartiera), fallimento dello sci di pista, rarefazione dei turisti, perdita dell’identità culturale, conclude Balocco: un quadro non certo confortante se si confronta Ormea con il passato che ha conosciuto. Cosa si fa oggi per rivitalizzare Ormea? L’autore lo chiede direttamente al sindaco, Giorgio Ferraris. «Abbiamo avuto un passato importante, a partire dalla fine dell’Ottocento, grazie alla costruzione della ferrovia, che ha consentito una facile e comoda accessibilità turistica quando i territori montani di gran parte delle valli alpine erano quasi inaccessibili e l’insediamento industriale della Cartiera, che è stata per quasi un secolo la fonte principale di occupazione per la nostra Comunità. Con queste opportunità, che si sono create più di un secolo fa, la progressiva marginalizzazione e l’abbandono delle attività agricole sui versanti montani sono stati più rapidi e precoci rispetto ad altre vallate. La crisi della Cartiera è stata una vicenda lunga e tormentata, dalla metà degli anni ‘70, quando aveva ancora più di quattrocento dipendenti oltre ad un indotto significativo, fino alla definitiva chiusura del 2007, quando vi erano ancora un’ottantina di occupati». Contestualmente – continua il sindaco – «abbiamo registrato un aumento notevole dell’età media dei nostri concittadini, perché molti giovani sono emigrati alla ricerca di opportunità di lavoro che la nostra zona non offre. Questo sia a causa del progressivo ridimensionamento e poi della chiusura della Cartiera, che per l’aumento della scolarità, che ha comportato la necessità per molti giovani di trasferirsi in aree dove esistono possibilità di collocazioni professionali adeguate e coerenti con i titoli di studio conseguiti, inesistenti, o limitatissime, sul nostro territorio. Sono cambiate le motivazioni, ma la diminuzione della popolazione residente, inevitabilmente, continua e non si registrano, al momento, inversioni di tendenza».

Tra le realtà però significative di Ormea da valorizzare è la Scuola Forestale con ricadute importanti sul territorio sia per gli stimoli culturali che dà al territorio sia per la rilevanza economica della presenza di un numero significativo di insegnanti e di studenti. Gran parte degli studenti provengono da località del Piemonte e della Liguria che, per le distanze, non sono raggiungibili quotidianamente e sono quindi costretti a risiedere a Ormea, dove molti vivono in affitto in alloggi privati e quelli delle prime classi nel convitto annesso alla Scuola, che può ospitare fino a 70 ragazzi. Oltre a rappresentare un indotto economico, la Scuola costituisce una struttura di eccellenza, unica nel suo indirizzo nel Nord Ovest, che ha collegamenti e interazioni sia con Scienze Forestali della Facoltà di Agraria dell’Università di Torino, sia con tutti gli enti che, a livello nazionale e regionale, hanno competenze e interessi nel settore forestale e più generalmente nell’economia dei territori montani. Sono state intraprese alcune iniziative per incentivare una crescita del settore, come la creazione di un consorzio e la realizzazione di un impianto cittadino di teleriscaldamento alimentato a cippato di legna.

Mi soffermo su questo punto a riprova del fatto che declinare la scommessa del Ritorno in montagna (o della Restanza che è la stessa cosa) con la parola scuola è decisivo. A Paraloup per esempio, la borgata alpina della Valle Stura che proprio la Fondazione intitolata a Nuto Revelli ha recuperato è stata accolta, su iniziativa della stessa Facoltà di Agraria di Torino la prima Scuola del Ritorno o meglio Scuola per i giovani agricoltori di montagna (Sgam) sotto la direzione del prof. Andrea Cavallero specializzato proprio in Scienze forestali. Scuola di Ritorno allora? Sì, perché tanto l’esodo dalla montagna a Ormea (come nelle vallate alpine cuneesi che ha toccato a partire dagli anni Cinquanta tassi di spopolamento superiori al 70%) è stato caotico, sgovernato, tanto i processi di Ritorno, ripopolamento, complessi, legati alla specificità dei singoli territori vanno governati. Imparare a ritornare o a restare (quando tutti i luoghi cambiano in continuazione, secondo l’antropologo Vito Teti) vuol dire anche ricostruire un tessuto sociale, riproporre quelle neocomunità tutte da costruire (nella definizione di un altro antropologo Pietro Clemente) perché sono il prodotto, a differenza che nel passato, di una scelta di vita consapevole. Per chi ritorna ma anche per chi resta. Difendere i territori dallo spopolamento e dall’abbandono vuol dire racquistare una coscienza di luogo (uso la felice espressione degli amici Territorialisti di Alberto Magnaghi) perché i luoghi non sono indifferenti.

Non è una scommessa semplice il Ritorno in montagna, chiamato, com’è a sanare una caduta anzitutto culturale: perché è proprio il venir meno di un linguaggio proprio, il farsi raccontare dagli altri – dallo sguardo ieri dei cartografi degli Stati-nazione (e da ciò che io chiamo le “geografie negative” dei margini, le frontiere, i confini) oggi dei turisti o degli investitori – la premessa dello spopolamento, dell’abbandono di intere comunità. È importante allora, come fa Fabio Balocco, reinterrogare il patrimonio territoriale che abbiamo ereditato perché nella nostra fase opaca, disorientata, priva di direzione, possiamo “riconoscerci”. Riconoscere i nostri territori, è l’impegno crescente di molti di noi, imparare a reinventare un futuro che neanche quello è rimasto in piedi, legato com’è a un’idea un progresso che ha scompensato e violato l’ambiente naturale, lo stesso disegno del Paese, schiacciato com’è tra i “troppo pieni” delle città e delle coste e i “troppo vuoti” delle montagne (appenniniche e alpine) e delle aree interne. Come Ormea, con le sue frazioni svuotate, sta a dimostrare.

Lottare per l’impossibile, ovvero prendersi cura del paesaggio rurale siciliano

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di Leonardo Ruvolo

Articolo tratto da chefare.com

Un anno e mezzo fa sono tornato a vivere ad Alcamo, la mia città natale in Sicilia, dove curo Landescape, un’istituzione d’arte contemporanea che organizza mostre, ospita residenze artistiche e progetta laboratori. Ci sono tornato dopo alcuni anni vissuti a Milano, dove seguendo un Master in Diplomacy all’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale e partecipando attivamente all’assemblea di Macao, nuovo centro per l’arte, la ricerca e la cultura di Milano, ho contribuito allala conversazione sul tema dei beni comuni: un percorso sulla loro proprietà, il loro utilizzo e la loro natura.

Tutto ciò è andato avanti fino a gennaio 2018, quando dopo aver lavorato alla Guida Galattica per Nuove Istituzioni, la campagna per negoziare la presenza di Macao all’interno degli edifici comunali di viale Molise 68, mi accorsi di essere stanco. Non ne potevo più di organizzare eventi per finanziare la vita e i progetti di Macao: era diventata una macchina tritacarne, e non ero disposto a lavorare per poche centinaia di euro pur di poter continuare a vivere a Milano. Così, ho deciso di tornare nel mio paese.

LO SPAZIO È RIDONDANTE
In Sicilia il paesaggio urbano occupa a malapena i bordi dell’isola — si infittisce soltanto attorno alle grandi città. La costa è una corteccia continua di case di mare, cemento, e sabbia. Il paesaggio rurale, invece, è un’immensa distesa di terra su cui insistono, a sorvegliare il nulla, le case di campagna. Esistono più case di quante sia possibile abitare e per ogni abitante esistono molti più spazi di quanti ne siano effettivamente utilizzati.

La proprietà privata è una tautologia ridondante: i patrimoni immobiliari richiedono manutenzione ed investimenti continui per conservare il loro valore, ed è così che —  tra le pieghe dell’accumulazione di capitale e dell’investimento senza cura — si fa spazio la distruzione stessa del sistema. Nel frattempo, la proprietà pubblica sopravvive grazie ad iniezioni di capitale europeo lasciando sul territorio dei mostri di cemento nell’attesa che qualcuno suggerisca una destinazione d’uso o semplicemente qualcosa da farci.

L’attuale stato della aree rurali è una diretta conseguenza del ruolo eccessivamente centrale dell’agricoltura come motore di sviluppo economico prevalente. Nel corso dei secoli, l’intensificarsi della produzione industriale e la crescente urbanizzazione hanno reso le aree rurali un bacino da cui prelevare forza lavoro da trasferire nei centri industriali e cittadini. Fuori da fabbriche e condomini delle aree metropolitane della piattaforma economica continentale, la Sicilia, così come altre regioni europee, è relegata alla marginalità: bassa densità di popolazione, emigrazione, bassi livelli di reddito, poche opportunità di lavoro, mancanza di investimenti pubblici e privati, distanza geografica dai centri e povertà di servizi sono solo alcuni dei problemi che condannano queste aree ad un declino economico, sociale e culturale, tale da sembrare inevitabile.

È a partire da questo scenario che nel 2015, poco prima di partire per Milano, insieme al mio caro amico Giuseppe Calamia abbiamo fondato Landescape: un progetto che allora era principalmente volto a portare in Sicilia pratiche audiovisive e performative sperimentali che ragionassero sul paesaggio e sull’ambiente naturale. Nella sua prima forma il progetto venne fuori come una rassegna super punk all’interno della Riserva Naturale del Bosco d’Alcamo, successivamente abbiamo trovato ospitalità all’Orto Botanico di Palermo.

La nostra proposta era ingenua, ma spontanea: per una notte l’Orto Botanico di Palermo si popolava di performance e installazioni che avevano a che fare con l’arte contemporanea. Landescape si è manifestato in questa forma per 3 edizioni, la prima ad Alcamo, durante le quali abbiamo incassato un sacco di critiche perché i modi erano dilettanteschi. Per quanto provassimo a replicare modelli di produzione artistica che in altri contesti avevano funzionato, in Sicilia tutto diventava molto difficile. Infatti era ed è difficile dare un valore economico a queste esperienze culturali, trovare maestranze e professionalità in grado di realizzare i progetti che immaginavamo, fare i conti con un pubblico che non conosce quello che nel quadrante di Milano, Berlino, Parigi, Londra è normale — se non addirittura banale.

Il 2018 è stato uno spartiacque. Una volta ristabilito definitivamente in Sicilia il centro delle mie operazioni, mi sentivo soffocare, avevo bisogno di una strategia per sopravvivere. Mi buttai a capofitto nella natura e nel paesaggio, l’unica cosa che riuscisse a calmare i miei stati d’animo inquieti: un giorno sì e l’altro pure controllavo il costo dei biglietti per tornare a Milano. Più andavo avanti e più entravo nel paesaggio rurale, più comprendevo che era esso stesso a suggerirmi la strategia. Mi si apriva dinnanzi una prospettiva tanto desolante quanto eccitante: processi da iniziare e spazi da occupare. L’esperienza sul campo a Macao mi aveva insegnato che là dove ci sono spazi da occupare è necessario attivare dei processi di cura collettivi per rivendicare diritti di libertà, sociali e culturali. Inoltre ho anche avuto modo di capire che senza una una garanzia istituzionale, presto o tardi i processi attivati non sopravvivono alle logiche del mercato della produzione culturale.

Il 2018 è lo stesso anno in cui arriva Manifesta a Palermo. L’Orto Botanico, dove noi eravamo presenti, diventa una location centrale per la biennale.Sfrattati da Palermo, decidiamo di tornare ad Alcamo e di cambiare completamente ciò che stavamo facendo, mettendo in relazione il capitale territoriale locale con quello umano costruito negli anni passati a Milano. Una nuova fase per il progetto Landescape si apriva grazie alla condivisione delle fatiche e della progettazione con un altro caro amico, Francesco Stabile.

Insieme, ad Alcamo, abbiamo creato una residenza artistica dove da ottobre 2018 ad oggi abbiamo ospitato più di 70 artisti, attivisti, professionisti della produzione culturale, prodotto 35 eventi tra mostre, concerti, workshop, party e talk, utilizzato 20 diverse location pubbliche e private, moltiplicato per 10 il budget di produzione, messo in rete più di 30 aziende locali dell’agroalimentare, dell’artigianato, del turismo e dell’edilizia. Non sono grandi numeri, ma per Alcamo — un paese di 45.000 abitanti in provincia di Trapani — si tratta di un traguardo che non avremmo mai pensato di raggiungere e in parte è stato possibile grazie alla garanzia economica del Comune del paese ed il continuo flusso di artisti.

LA CASA VICINA AL BOSCO
Ma budget e artisti non sarebbero bastati a far sopravvivere ciò che stavamo facendo: guardando indietro, il reale valore che abbiamo generato è quello che deriva dalla cura delle relazioni tra i vari attori coinvolti. In queste relazioni sono inscritte le esperienze di azioni fatte insieme, che diventano memorie e vissuti in grado di alimentare l’orizzonte immaginario verso cui tendiamo nell’incessante sforzo di sovvertire il reale. Queste relazioni e questo stare insieme avevano bisogno di una casa

Così abbiamo creato uno spazio, si chiama Posto Segreto, un laboratorio all’aria aperta tra vigneti e mandorle. PS  è fondamentale nell’infrastruttura che stiamo creando per assicurare una base sicura a tutti quelli che fanno parte del nostro network, ma al contempo creare un’opera d’arte vivente che rappresenti il tentativo incessante di migliorare le nostre condizioni di vita.

È per questo motivo che siamo ripartiti dalle basi di tutte le micro-società primitive: alimentazione e relazioni umane. Abbiamo messo a sistema il network di contadini,produttori locali e artisti in residenza per fare di Posto Segreto lo snodo principale di questa rete. Puoi passare per scambiare prodotti, organizzare una cena, fermarti a dormire, lavorare nei campi, ma soprattutto incontrare i forestieri.

L’incontro tra i locali e gli artisti che invitiamo genera delle energie inaspettate dal quale spontaneamente si creano situazioni confortevoli in cui ciascuno è libero di esprimersi come meglio crede. È così che è nato il progetto di rigenerazione del MACA, il Museo d’Arte Contemporanea di Alcamo: frutto dell’incontro esplosivo tra Landescape e R.I.S.A. – Research Institute for Spontaneous Action, che abbiamo fondato insieme a Giovanni Bozzoli e Alessandro Veneruso e che oggi include anche Anna Brussi, Francesca Maciocia, Federica Carenini, Francesco Stabile e Vitaly Weber. Contestualmente Landescape è diventata un’associazione e oggi conta una ventina di membri. Fare questi nomi e ripercorrere certe tappe non è semplice narcisismo, ma è il tentativo di ricostruire quel complesso reticolo di relazioni senza le quali questa storia non si potrebbe raccontare.

Insieme abbiamo immaginato Alcamo come un campo da gioco in cui gli attori, i luoghi, i materiali, i medium nonché le relazioni che si stabiliscono tra di loro disegnano una mappa. In questo senso naturaruralefolklorecultura culinaria e religione sono quelle aree tematiche che raccontano lo spirito di Alcamo. Allo stesso tempo diventano il contesto all’interno del quale invitare un artista a rappresentare il contemporaneo e la stretta connessione con la tradizione della popolazione autoctona. Gli artisti coinvolti sono invitati a partire dalla necessità di creare una prossimità tra la loro opera e gli altri attori coinvolti – fruitori museo, artisti locali, privati fornitori di materiali, proprietari delle location, istituzioni, professionalità dell’arte, media. Ciò assicura che l’intervento possa effettivamente entrare in relazione con la città e la sua comunità.

NUOVE MITOLOGIE PER VECCHIE ISTITUZIONI
Mentre io sogno di vedere funzionare un Museo d’Arte Contemporanea nel paesaggio rurale, mio nonno — come molti altri siciliani — sognava di realizzare una cantina all’interno di “ ‘u macasenu ” di campagna. Un’istituzione culturale contemporanea che racconti una comunità e il suo territorio necessità di un’opera di ricostruzione del paesaggio all’interno del quale è situata, per questo sto scrivendo una mitologia che racconti il paesaggio contemporaneo, i suoi attori e i suoi rituali.

Questo racconto inizia il 1° maggio 1947, la data dell’eccidio di Portella della Ginestra: quando  uccisi i contadini che manifestavano contro il latifondismo a favore dell’occupazione delle terre incolte e festeggiavano la recente vittoria del Blocco del Popolo, l’alleanza tra i socialisti di Nenni e i comunisti di Togliatti, alle elezioni dell’assemblea regionale siciliana.  I braccianti si erano uniti attraverso l’intera isola per rivendicare la proprietà delle terre incolte e la loro redistribuzione, ma il movimento venne represso nel sangue. Pochi anni dopo, nel 1950, viene approvata la riforma agraria, che… prende il via in tutta Italia grazie alla spinta prorompente che arrivava dalle lotte del movimento contadino siciliano. Ma in realtà questa storia è quella di una rivoluzione annunciata ma inattuata — come impedita da qualcosa di inatteso.

Ad Alcamo, tutti gli anziani che incontro mi dicono che in effetti negli anni ‘50 la rivoluzione vera è un’altra: resine melammina-formaldeide, poliestere, nylon, polietilene, polipropilene isotattico: il boom economico. Da quel momento nessuno avrebbe dovuto più temere “‘u pitittu” e gli odori che esalavano dai fuochi accesi nelle campagna cominciavano a sapere di morte.

È a questo punto, però, che si scopre che il consumismo come nuovo modello di sviluppo economico non assicura la creazione di ricchezza. I braccianti agricoli, infatti, facevano ancora la fame perché sostituiti dai trattori: appendevano le zappe ai muri e decidevano di partire con destinazione il Nord. A cavallo degli anni ‘60 e ‘70, un nuovo modello di sviluppo economico si diffonde su tutta l’isola: l’abusivismo edilizio. In quegli anni chi disponeva di un po’ di capitale o di qualche garanzia per ottenere un prestito comincia a costruire case improbabili, villette sulla sabbia e palazzi a tre-piani; di cui se andava bene terminavano il piano terra e il primo piano, mentre gli altri due li destinavano ai figli lasciandoli incompiuti.

Basta fare un giro ad Alcamo, oggi, per trovare centinaia di esempi di incompiuto nelle zone di nuova espansione: è un paesaggio che si estende dalla pedemontana alle zone costruite dopo il terremoto del ’68 — da Alcamo Marina alle arterie che portano al mare. Piani di cemento su piani di cemento che aspettano figli che non vogliono più tornare a casa. Quest’opera di deruralizzazione della Sicilia è collegata all’attesa della rivoluzione borghese industriale, che non è mai avvenuta e mai avverrà. Il paesaggio porta i segni di questa attesa vana e nel cemento, che ancora oggi scorre a tonnellate, ha trovato la propria cura. Ma la modernità ha una data di scadenza, quella della durata del cemento.

Rapidamente, ecco arrivare una nuova rivoluzione a promessa di un futuro roseo. È il 1992 e l’Italia promette ai suoi partner europei di diventare un membro virtuoso e accede al club dei paesi che avrebbero introdotto l’Euro, la nuova moneta, per amplificare e aumentare la velocità degli scambi commerciali tra gli stati nazionali europei. Le aree rurali diventano la meta di un modo di fare turismo integrato alla agri-cultura locale, e l’opportunità si trasforma presto in modello di sviluppo. È così che assistiamo, negli ultimi anni, alla proliferazione degli Airbnb che promettono accesso al mare e wi-fi gratuito, di escursioni in natura con quad e motoscafi fiammanti, di vendemmie per giovani tedeschi e workshop di “maccarruna cu la sarsa” per francesi rompicoglioni.

In questo disegno niente va messo da parte, il modello consumista e il patrimonio immobiliare costituiscono l’infrastruttura materiale su cui gira questo modello di sviluppo contemporaneo, mentre la agri-cultura, il patrimonio immateriale di conoscenza da cui attingere per dare una parvenza di realità alla nuova economia.

Pre-post Covid-19, un nuovo medioevo

È in questo scenario che un pattern si fa evidente: l’orizzonte rivoluzionario di cui ha sempre vissuto la Sicilia si trasforma ciclicamente nel motore principale della sua marginalizzazione. I processi di sviluppo economico si finanziarizzano rapidamente e generano, nuovamente, la domanda di un’altra rivoluzione. Nel frattempo, tutto rimane uguale.

La storia della capacità del capitale di territorializzare qualsiasi cosa non è, ovviamente, solo siciliana: nel mondo pre-Coronavirus lo stesso sentore lo si stava avendo con il montante movimento ecologista, invischiato nelle contraddizioni emerse a causa dei compromessi che ne hanno facilitato proprio la diffusione. Tra mercificazione in slogan, e prodotti, moda e comunicazione diventa chiaro il problema di una di una lotta che non si auto-organizza e prende per buona l’infrastruttura del sistema stesso che combatte.

La domanda circa quale lotta ingaggiare, come organizzarla e con quale strategia è al centro di tanti progetti che come istituzione culturale promuoviamo, nelle premesse e nell’approccio Prima della quarantena insieme a RISA, il Dirty Art Department del Sandberg Instituut e a Macao stavamo progettando la terza edizione della residenza artistica Wandering School:  immaginavamo un intervento spontaneo all’interno della settimana del Fuorisalone che rappresentasse a livello simbolico, estetico e speculativo lo snervante fatica di tutti i precariche non riescono a mettersi insieme, in quanto divisi dai processi produttivi che li mettono in competizione tra di loro.

Della pratica di quel progetto, per ora, non se ne farà nulla — ma le premesse sono ancora lì, esasperate dall’esplosione della pandemia. La parola del momento è together, e non posso nascondere che anche io la uso parecchio. È lo slogan principale della campagna elettorale di Bernie Sanders e Alexandra Ocasio-Cortez, e che già sappiamo essere sacrificabile sull’altare del progressismo di sinistra bianco e maschilista, rappresentato da Joe Biden. La stessa parola può essere riciclata come slogan delle nuove pubblicità di Vodafone. Per diventare, infine, il mantra anaffettivo di tutti i politici di destra o sinistra, a cui gli studi di comunicazione suggeriscono come entrare nella testa delle persone.

Con la definitiva sconfitta del movimento operaio, e la contestuale trasformazione delle persone in monadi votate al consumo, la socialità, il semplice stare insieme, diventa un bene da consumare, accompagnato da un po’ di intrattenimento culturale. L’aver reso la socialità e la cultura beni di consumo ha di fatto neutralizzato le intenzioni degli artisti, degli attivisti o di quanti in questi anni hanno creduto di star facendo arte politica. L’ipocrisia del sistema di produzione culturale è venuta definitivamente a galla quando una volta chiusi bar, teatri, club, cinema, musei, centri culturali ecc., abbiamo di fatto scoperto la natura non essenziale di un certo tipo di lavoro culturale.

Il semplice e spontaneo stare insieme diventa il campo dove condurre lo scontro. Per questo motivo, con gli amici di sempre, oggi, più che mai si litiga; è difficile fidarsi, la competizione e la frustrazione si insinuano in tutte le comunità. I nostri privilegi, piccoli o grandi che siano, sono allo stesso tempo l’ostacolo e l’opportunità di un miglioramento del nostro stare insieme. Per questo non ci si può abbandonare alla depressione della telecomunicazione: i corpi scalpitano, ardentemente desiderano stare insieme, lottare e farsi comunità. Curare il comune oggi è in teoria impossibile, e per questo sollecita una pratica risoluta che sa che tempo e spazio sono limitati. Questo conflitto è interiore, dell’individuo contro se stesso, della propria coscienza contro la propria morale. A partire da questa consapevolezza, spesso tradita, i discorsi contemporanei rivendicano giustamente migliori condizioni di lavoro e più reddito. In realtà in gioco c’è la sopravvivenza della comunità, che allo stesso tempo è la piattaforma da cui avanzare successive rivendicazioni.

Prima del Coronavirus immaginavamo di fare di Posto Segreto per questa stagione il centro di una serie di workshop, performance ed eventi. La pandemia ha chiesto una modifica della strategia sul breve periodo. Adesso, come i monasteri nel Medioevo per il mondo che verrà ospiteremo i pellegrini. Stiamo sognando.

Discorso e retorica dell’abbandono

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di Paolo Ferrari Magà

La natura è piena d’infinite ragioni che non furon mai in isperienza.
(Leonardo da Vinci, Codice I, 1492-1516)

1. Il titolo di questo mio scritto riprende quello dell’ultimo capitolo de Il mantello del centauro, l’ultima pubblicazione della collana Menüssie de gea, e rivela il bisogno di proseguirne i temi, su di un piano argomentativo più astratto e teorico, ma non per ciò — spero — meno attinente alla realtà di cui si parla.

Si tratta, in sostanza, della schiuma ultima del movimento alterno di argomenti indagati o raccolti in narrazione, tutti fluenti e rifluenti intorno al gran tema dell’abbandono. Un tema che potrebbe manifestare i suoi vaghi confini rispondendo o riecheggiando alle seguenti domande: veramente ogni territorio chiede d’essere abitato? Veramente solo l’abitare e l’attivare le caratteristiche naturali di un territorio conferiscono a quello un significato, un valore, una funzione?

Questo uomo, con Protagora di ogni cosa misura, lo assumiamo oggi, in quanto termine di misura, esclusivamente nella sua dimensione culturale, e così ci imbattiamo in un fatto che non sembra poi di poco conto, ovvero la rimozione della dimensione naturale intesa come istanza, certo non separabile dalla sua controparte culturale, ma comunque potenziata di senso e valore che hanno il loro svolgimento autonomo, ancorché non separato.

Porre il tema del riconoscimento di un valore nel fenomeno dell’abbandono e dello spopolamento delle terre d’altura non è impresa facile, né foriera di facili consensi. Molto più facile, certo, è far risaltare il disvalore riposto nel discorso scaduto a retorica, cioé banalizzato strumentalmente o per ignavia ratio, che allo stesso fenomeno si applica così sovente, nelle attività e progettualità istituzionali, turistiche e turistico-culturali, mass-mediatiche, culturali e promozionali che dir si voglia.

Naturalmente (ma non così evidentemente) riconoscere un valore all’abbandono non comporta non riconoscerne agli sforzi che vanno in direzione opposta allo stesso, e qui ci scontriamo con la difficoltà intellettuale (che è stata, e tuttora è, prima di tutto la mia) e con la necessità di un difficoltoso passo avanti argomentativo, concettuale; con la formulazione, cioé, e l’accettazione di un duplice movimento, sia nelle forme di una ambivalenza di struttura logica, sia nell’equivalente figura riconoscibile nella storia di questi entroterra d’altura, di movimenti di popoli su e giù dalle valli, popolamenti e spopolamenti che, nel corso dei millenni, si sono alternati ed hanno prodotto — oscuramente, se vogliamo — quello che oggi siamo ed è il nostro territorio; con le sue diverse caratterizzazioni e connessioni all’interno di quadri macrostorici, le sue peculiarità e affinità con altri, contemporanei, analoghi, movimenti di popoli e di culture nel mondo, dagli albori della storia fino agli anni della rivoluzione tecnologica, economica, sociale, del secondo dopoguerra, oggi vertiginosamente superati nella nuova realtà (o irrealtà) del virtuale.

Accettare questo duplice movimento (ammesso che i suoi termini sia possibile definire in sufficiente chiarezza), anche su di un piano valoriale, vuol dire accogliere nel momento presente la forma di un divenire storico che, nell’andare e venire di popoli da e verso le terre che oggi vediamo spopolate, ha seminato valori e disvalori che sono intrinseci propriamente a quel movimento composto di direzioni opposte e alterne.

Chi è restato, chi è tornato e tornerà; ma anche chi, facendo altre scelte o subendo più forti costrizioni, ha diversamente resistito, nei nuovi luoghi e nuovi lavori, in così radicalmente diversi spazi e tempi, vivendo il luogo abbandonato delle origini attraverso le forme solo apparentemente sterili del rimpianto, della nostalgia, della rassegnazione; costoro — tutti quanti e tutti insieme — sono stati sommersi dalla grande corrente della nuova modernità di quei decenni Sessanta e Settanta (oggi già oggetto di interesse archeologico dai bordi consunti e incerti del nostro presente); ma l’abbandono riguarda a pari diritto chi è andato e chi è rimasto, perché gli uni e gli altri sono protagonisti di una unica storia, solo apparentemente divisi su opposti versanti di scelta e necessità: ma dove la scelta? E dove la necessità?

E anche potremmo dire, chi è rimasto (e forse anche chi è tornato o è di nuovo arrivato) è talvolta, per altri versi, abbandonato egli stesso da quella sua scelta o necessità, di cui non riesce più o non ancora a riconoscere le ragioni esistenziali; e sovente, al tempo stesso, vivendo nell’abbandono di quelli che non sono più, del mondo che non è più, che ha conosciuto, di cui ha sentito o non potrà più sentir raccontare.

E così chi è andato, diversamente ma ugualmente, è in altro modo rimasto, nei ritorni sporadici o stagionali, nella stessa nostalgia che è sterile solo per chi non conosce la potenza fondativa della rassegnazione, del ritrarsi dal mondo del progetto e dell’azione, questi ultimi sì, così spesso vani, confusi e sterili.

C’è dunque un abbandono nell’andare e un abbandono nel restare (e c’è un restare nell’andare e un andare nel restare), c’è un valore nelle scelte, nelle necessità, e anche nella casualità (che gli antichi chiamavano fato, noi destino, ma non ci crediamo più veramente, prigionieri del dogma della serialità di causa e effetto) che sorreggono l’andare e il restare di individui, soprattutto per un verso, e di moltitudini, soprattutto per altro verso.

Perché se parliamo di percorsi di vita individuali, l’uno dall’altro diverso, e diversamente non potrebbe essere, però parliamo anche di percorsi di moltitudini, di comunità intere, di ceppi parentali, e quindi delle strutture e dei processi che sono alla base di queste realtà collettive e che hanno costituito i modelli e fornito gli strumenti per elaborare le varie forme dell’abbandono, in configurazioni distinte, a certi livelli, e ad altri livelli invece uguali, com’è sempre nei divenire della storia.

Percorsi, movimenti, che trovano il loro senso, le loro cause e finalità, proprio in quell’essere di moltitudini, che rispondono alle dinamiche di gruppi sociali più o meno definiti, più o meno identificati; che, insomma, non sarebbero stati, non sarebbero o sarebbero ma radicalmente diversi senza le caratteristiche che definiscono quelle moltitudini che ne sono protagoniste.

2. Ci sono poi i due versanti di questo movimento di abbandono di luoghi, (quello, voglio dire, a noi più vicino nel tempo), ognuno dei quali implicante forme di crisi — crisi di presenza, per usare la terminologia dell’etnodemologo Ernesto De Martino [1] — diversamente caratterizzate: quello del lasciare i luoghi ancestrali e quello dell’affluire ai nuovi luoghi, della modernità, dell’urbanità, della società dello spreco, dell’abbondanza, del consumo e dello spettacolo. Possiamo dire che si sia trattato di una apocalisse rimossa, anestetizzata, certo incruenta (alle nostre latitudini e per i territori di cui ci stiamo occupando) rispetto a quelle rappresentate dai grandi genocidi della storia, ma non meno significativa e forse neppure diversa nella sua essenza.

Questi due versanti, complementari e strettamente interdipendenti, presentano ciascuno le proprie caratteristiche, ma difficilmente potrebbero essere sopposti ad analisi distinte. Coloro che abbandonavano il paese di origine erano più o meno inconsapevoli protagonisti di un movimento globale di portata epocale; stavano vivendo l’apocalisse del mondo contadino con uno stato d’animo complesso intriso di contradditorie istanze psicologiche e morali modulate sulle valutazioni e i vissuti di perdita e ottenimento: lo stipendio sicuro versus la libertà del lavoro nei campi; la socialità aumentata versus la monotona sicurezza ritualizzata degli affetti; la varietà di nuovi stimoli sensuali (alimenti, musica, immagini) versus la sfera ancestrale e identitaria degli stessi. Le stesse persone, poi, nell’affluire verso i mondi della modernità, nel contribuire a plasmarli portandovi i propri antichi saperi, in forma rimossa o stravolta o sublimata in negativo, posero in atto strategie di adattamento (e anche di rinuncia e rassegnazione) ai nuovi mondi tecno-consumistici-spettacolari, sia verso questi stessi mondi, sia rivolte indietro nelle forme dei ritorni periodici (le estati, le feste, qualche lavoretto ancora nell’orto o in un piccolo frutteto) ai paesi d’origine, rimodulati in immaginario mitico-nostalgico oppure rifiutati con rimossa e violenta amarezza oppure, ancora, in altre forme elaborate.

Sono brevi cenni, questi di sopra delineati, tracce che forse sarebbe proficuo seguire per una indagine, antropologica o sociologica che dir si voglia, forse ancora in sospeso o sicuramente ben lungi da un esaustivo svolgimento.


3. Proveniamo da una storia plurimillenaria di culturalizzazione dell’ambiente naturale; il nostro rimpianto per i paesaggi ordinati dei nostri padri e dei nostri nonni sarebbe condiviso da innumerevoli generazioni di contadini e pastori che ci hanno preceduto e ben più a ritroso nel tempo rispetto a quell’esemplare fulgido d’arte che è L’allegoria ed effetti del Buono e del Cattivo Governo di Ambrogio Lorenzetti nella Sala del Consiglio dei Nove del Palazzo Pubblico di Siena (1338-1339), opera a proposito della quale lo storico delle foreste Mauro Agnoletti parrebbe ipotizzare — e verosimilmente — che, in epoche precedenti a quella comunale nella quale viveva il grande pittore senese, avrebbe potuto allignare una maggiore dimestichezza con la vita e l’ambiente selvatico, con il procacciarsi sostentamento attraverso la caccia e la raccolta, piuttosto che coltivando la terra; cioé attraverso un grado di attivazione delle risorse naturali la cui impronta ecologica sarebbe stata assai inferiore rispetto a quella di una società di allevatori e coltivatori.

Ma se è vero che la rinaturalizzazione del territorio, l’avanzare della selva sulle rovine delle città romane abbandonate e spopolate, offrirono alle popolazioni barbariche, che dal Nord e dall’Est Europa dilagavano di qua delle Alpi, ambienti ideali per la loro indole e cultura di cacciatori, è altrettanto vero che la necessità di ricreare ambienti sicuri dalla malaria e dalla concorrenza di altri efficaci predatori (lupi, orsi, linci, lontre ecc.), i vantaggi della conservazione degli alimenti rispetto a forme di sostentamento legate alla stagionalità e al momento, la conseguente possibilità di porre in atto forme elementari di commercio: tutti questi fattori e probabilmente molti altri che sfuggono al nostro pensiero avranno presto fatto prevalere un progetto di culturalizzazione dell’ambiente naturale con l’affermarsi conseguente di un ideale di paesaggio, forse ancora in nuce, forse ancora imperfetto e vago nei suoi profili, ma che certo già faceva intravvedere quell’evoluzione della coscienza collettiva del territorio verso un ordine che non poteva non rifarsi a quello che, tra il fitto della vegetazione, ancora si poteva leggere nelle tracce degli antichi dissodamenti, della romana centuriatio, un po’ come, mutate mutandis, oggi leggiamo quello del nostro recente passato contadino nei muri a secco delle fasce terrazzate dirute e invase dalla rosa canina, dal rovo e dal prùgnolo.

Così si spiega forse, almeno in parte, perché sia così difficile concepire un valore intrinseco nell’ambiente naturale incolto: esso è idealmente, psicologicamente, nemico della nostra storia, è ancora, nel profondo della nostra coscienza, l’avversario da sconfiggere, con l’ascia e con il fuoco.

Eppure questa nostra storia, i processi sociali, economici, culturali in senso lato che la compongono, ci ha portato a fronteggiare non solo, non in primo luogo, una nuova storia, ma anche e forse soprattutto (o in relazione indissolubile) una nuova natura, risultato dell’elisione di un passato secolare o millenario di storia e natura, e dell’interazione di tale passato con un futuro che si delinea nelle forme di nuove angosce e nuove ineludibili scelte ed occorrenze, e questa volta al di fuori dai deliri millenaristici mistici o psicotici di un non così distante Medioevo, ma ben addentro alle asserite certezze statistiche, numeriche, modellistiche, della cosiddetta scienza, rimbalzata, amplificata, deformata dalla gran cassa mediatica a sua volta, questa, in costante evoluzione-deformazione.


4. Ed è proprio qua il punto, perché è questa nostra storia che deve essere profondamente ripensata, questo nostro presente che ci chiama a nuove consapevolezze, che ci chiede di elaborare in altre forme il rapporto essenziale, ineludibile, con il mondo naturale; e ciò bisogna sia fatto a partire dai margini inquietanti di un futuro che pare assumere, con ritmi e scadenze sempre più serrati, i connotati di un’apocalisse prossima ventura.

Si direbbe che il discorso odierno sul mondo contadino (della montagna o, fino a un certo punto, in generale) si sia arenato nei termini di una contrapposizione tra le forme culturali della civiltà rurale europea — rimaste sostanzialmente o in larga misura immutate da secoli (o da millenni, a più profondi livelli di struttura) fino alla metà del secolo scorso (questo, quanto meno, per quanto concerne il mondo contadino della montagna) — e le forme della modernità industriale, commerciale, tecnologica e mass-mediatica, così come le abbiamo sperimentate fino agli anni Settanta/Ottanta del secolo scorso.

Ad oggi la riflessione sulla crisi del mondo contadino storico-tradizionale si è misurata quasi esclusivamente e anche, forse, in forme insufficienti, con i processi dell’industrializzazione, della tecnologizzazione, del proliferare indefinito della merce e del consumo, con l’avvento delle nuove forme di acculturazione e controllo sociale legate alla società dello spettacolo e alla scolarizzazione di massa.

Ed è nel confronto (anche e per lo più emotivo) con tali processi che si è formato il sentire comune dell’abbandono, quale complesso di sentimenti diversi, complementari, opposti ma tenacemente commisti: rifiuto, rimpianto, nostalgia, angoscia repressa per quanto si è perso, soddisfazione per quanto si è conseguito o per ciò di cui ci si è liberati e così via.

Si potrebbe a lungo esercitarsi ad indicare in maniera vieppiù variegata, articolata, complessa, l’insieme contraddittorio di sentimenti, emozioni, percezioni che compongono questo sentire collettivo. Si potrebbe (chissà che qualcuno già non ci abbia provato) tentare una storia psicologica o della mentalità incentrata su quegli anni del Dopoguerra, che troppo diamo per scontati nelle loro implicazioni sentimentali, psicologiche, ideologiche in senso originario.

Quanto sappiamo veramente, sul piano psicologico del sentire comune o individuale (i due mai veramente scindibili), dei processi di elaborazione di quell’epocale passaggio dalla cultura tradizionale contadina (e della montagna in particolare) alla modernità tecno-industriale-consumistica del Secondo Dopoguerra, delle dinamiche sociali, economiche e psicologiche, delle motivazioni sottese agli innumerevoli movimenti di popolazione, individui, famiglie e parentati, verso la pianura e le città, con le nuove forme dell’abitare, del muoversi nello spazio, del fruire il tempo del lavoro e il tempo libero, del consumo e del desiderio?

E ancora prima che si sia giunti ad una elaborazione opportuna delle dinamiche, delle conflittualità, delle forme di osmosi, del passaggio da quel “medioevo” contadino alla Modernità dalla quale stiamo ormai uscendo, e già siamo fuori per buona parte della nostra esistenza individuale e collettiva; ancora prima che si siano rinvenuti gli strumenti concettuali e metodologici per analizzare questa nostra recente epoché, ecco che già siamo oltre e siamo a misurarci con il tempo dell’informatica, dell’automazione avanzata, della rete e dei social, dell’Internet delle informazioni e delle cose, dei big data e della surveillance, dell’intelligenza artificiale, della robotica, della manipolazione genetica e del post-umano (e forse collante di tutto questo sarà il pandemico, quale nuova dimensione del controllo sociale, dell’organizzazione del tempo e degli spazi, della normativizzazione del vissuto); e soprattutto con il tempo della grande crisi e del collasso apparentemente irreversibile degli ecosistemi a livello globale, dell’esaurimento delle risorse naturali, del drammatico impoverimento della biodiversità analizzato e denunciato ormai in un numero enorme di pubblicazioni di vario livello scientifico, il cui precedente escatologico più diretto è forse l’incubo atomico del Secondo Dopoguerra, quello più remoto (agevolmente individuabile), almeno per l’Europa, la peste nera del Trecento.

E dunque la rottura non è più tra due culture figlie del Medioevo: l’una, quella contadina, millenaria, in quanto continuità resistente delle sue forme legate alla terra, al pascolo, allo scambio e commercio di beni primari di sussistenza; l’altra, quella industriale, in quanto evoluzione della prima, perché le città, i mercati, nascono dal surplus produttivo delle campagne.

Rottura poi, ma consequenziale, e che mai veramente ha reciso il vincolo con il luogo e la terra, prima che, ed è quanto oggi sta accadendo, la tecnologia arrivi a sostituire i processi di natura, con la produzione sintetica di alimenti, vegetali e animali, e a chi si indigna si contrappongono le argomentazioni che invece enfatizzano la vertiginosa e benefica riduzione di impatto e impronta umana sulla natura (consumo di acqua e territorio, emissione di gas serra ecc.) che questo modo di alimentarsi consentirebbe.

Un mondo naturale finalmente liberato dall’intrusione dell’agricoltura, del pascolo, dello sfruttamento forestale, libero di esprimersi in complessità ecosistemica e regolamentato solo in proporzione ai bisogni di spazio e di movimento da parte dell’uomo, o, al limite, per il soddisfacimento di bisogni estetici di elaborazione dell’ambiente naturale, una sorta di land art non più retaggio di pochi geni eletti, ma di un comunitario senso estetico che, all’interno di una natura tornata alla sua primigenia libertà d’espressione, interviene con pochi tocchi per caratterizzare qua e là, in senso culturale, le forme del suo spontaneo evolvere.

Un sogno per alcuni, un incubo per altri, ma innanzittutto (anche al netto delle implicazioni di altra natura, ecologica, sociale, economica che una tale trasformazione comporterebbe) un orizzonte quasi inconcepibile dal pesante punto di vista del nostro millenario radicamento in quella lontana rivoluzione che chiamiamo Neolitico (oggi, per certi aspetti, rimessa in discussione come categoria storica, dall’antropologo anarchico David Graeber recentemente scomparso).


5. Torniamo all’affermazione iniziale da cui siamo partiti: quel valore dell’abbandono di cui si è detto. Consideriamo innanzitutto i processi attraverso i quali lo si è espulso dal dibattito attuale sulle terre alte, e noi pensiamo agli Appennini e alle Alpi, in prima istanza, ma a seguire anche a tutte quelle wilderness di ritorno contese tra opposte idealizzazioni, le spopolate vastità dei Supramonti di Sardegna, ad esempio, mentre altra storia, altra narrazione chiederebbero le pianure un tempo agresti dove la terra è divenuta materia prima da trasformare meccanicamente e chimicamente per ottenere alimenti che mangiamo con sospetto e paura.

Questi i concetti cardine, buoni per ogni occasione, automatismi argomentativi che traggono la loro forza da un tacito consenso che dispensa chi li afferma e chi li approva da ogni ipotesi di argomentazione dialettica: la natura ha bisogno dell’uomo, è un classico del più deteriore pensiero antropocentrico.

Ricordo un dibattito pubblico durante il quale uno dei relatori si profuse compiaciuto in un azzardato gioco di parole definendo i territori disabitati territori disabili. La visione produttivistica alla base di questa maldestra, un po’ scabrosa e irrispettosa, ma significativa metafora getta una livida luce sull’idea di una natura che, al pari di un essere umano affetto da qualche patologia, non è utile alla collettività, non può dare il meglio di sé perché non beneficiata — attivata — dall’attenzione umana.

Attivata, per usare un termine tecnico esso pure piuttosto indicativo e un po’ inquietante, come se prima del tocco umano/divino quella materia dormisse in una cieca passività: quanto, troppo, Aristotele, quanto, troppo poco Bruno in tutto questo!

Rovesciare questo argomento nel suo opposto è fin troppo facile, e non così interessante come seguirne le consequenzialità. Se si afferma l’idea che l’ambiente naturale ha un senso e una funzione solo se modificato dall’azione umana, si cancella d’un solo tratto (potenza della retorica) ogni possibilità di concepire gli habitat naturali nella loro dimensione biologica, li si vincola irrefutabilmente all’azione della storia, sorretti dal secondo formidabile argomento retorico che richiama appunto la dimensione storicizzata degli ambienti naturali: fatto innegabile nella sua evidenza, ma il cui svolgimento logico porta spesso a conclusioni che rivelano una difficoltà di articolazione dialettica, un assolutismo argomentativo condizionato da fini strumentali, nella peggiore delle ipotesi, ma talvolta anche da deformazioni professionali, orgoglio di disciplina, come è il caso, che esemplifico attingendo a un saggio che già nel titolo svela la radicalità di una tesi per certi aspetti, come vedremo, paradossale.

I due esempi, quello testè riportato e il seguente, va detto, si collocano a livelli qualitativi potremmo dire opposti (e infatti dedicheremo spazi diversi all’una e all’altra), il primo afferendo a un dire grossolano un po’ da bar (per usare un altro luogo comune, che poi non è che nei bar non si facciano a volte anche discorsi intelligenti); il secondo a un ambito di eccellenza nella ricerca sul rapporto tra uomo e territorio che così si definisce (cito dal sito ufficiale): “Il LASA (Laboratorio di Archeologia e Storia ambientale) è costituito da un gruppo di lavoro multidisciplinare (geografia storica, ecologia storica, storia e archeologia ambientale, archeologia rurale, archeobotanica, storia sociale, geologia applicata) che coinvolge anche i partecipanti al Corso di Dottorato “Geografia storica per la valorizzazione del patrimonio ambientale” (Scuola di dottorato di ricerca in “Scienze storiche e filosofiche”).”

Seguo con attenzione gli interessanti resoconti delle loro ricerche disponibili su Academia.edu. Alcuni componenti del suddetto gruppo di lavoro hanno dedicato degli studi alla questione della rinaturalizzazione, con una impostazione che è molto interessante per il discorso che stiamo facendo, all’interno di una raccolta di saggi intitolata Oltre la rinaturalizzazione: studi di ecologia storica per la riqualificazione dei paesaggi rurali (Oltre edizioni, a cura di Valentina Moneta e Claudia Parola).

La raccolta di saggi è del 2015 e il riferimento al concetto di rinaturalizzazione credo rimandi a un saggio precedente (2012) di Roberta Cevasco dal titolo se vogliamo più esplicito e radicale: La fine della naturalizzazione: approccio storico e geografico ai problemi dell’abbandono dei sistemi colturali locali, con particolare riferimento al piano paesaggistico ligure. Il punto di vista dichiarato, dal quale muovono le argomentazioni contenute nel saggio, è quello dell’ecologia storica, visto in contrapposizione critica con quello della rinaturalizzazione che caratterizzerebbe in maniera retrograda l’approccio istituzionale e programmatico alla gestione del territorio ligure con conseguenze negative in termini di dissesto idrogeologico (a fianco di altre scelte invece di artificializzazione del territorio stesso, il riferimento è agli studi di Massimo Quaini).

Il contributo delinea l’interessante dibattito tra approccio storico-ecologico e approccio naturalistico con riferimento alle teorie (qui abbracciate), già propugnate negli anni Settanta da Oliver Rackham (considerato uno dei padri fondatori dell’ecologia storica), di un superamento del concetto di natura primigenia e di climax a favore di una visione basata sulla considerazione dei processi ambientali storici, della biodiversificazione, in contrapposizione forse alla biodiversità, aggiungendovi cioè la dimensione diacronica, intesa come dimensione storica.

Si tratta di un dibattito di grande interesse che l’autrice in questo caso affronta a me pare con un eccesso di partigianeria a favore della propria disciplina scientifica, con affermazioni a volte un po’ troppo perentorie come quella secondo la quale i coltivi e pascoli in abbandono non tendono affatto allo stadio di equilibrio climacico e tanto meno ad un ritorno al primigenio, processi questi piuttosto oggettivi (a cosa tenderebbero se no?) che per altro non sono in contraddizione con il riconoscimento dell’impronta storica sull’ambiente naturale, da nessuno scienziato naturalista o semplice uomo di buon senso negata.

E mi sembra proprio questo il punto debole — non tanto dell’interessante contributo della Cevasco quanto del dibattito in generale, che vede forse un eccesso di volontà di prevalere da parte degli storici dell’ambiente (e io, nel mio piccolo, mi ascriverei piuttosto tra costoro) rispetto a scienziati naturalisti che — come già accennavamo — ben si guarderebbero dal negare gli effetti della storia sulle caratteristiche biologiche degli habitat naturali.

Se la condizione climax non esiste più nei nostri territori storici come realtà compiuta, perché non dovrebbe continuare ad esistere come tendenza, verificabile nei processi che vedono la colonizzazione di determinati arbusti e piante in condizioni specifiche (e pur considerando anche l’interferenza delle colture e delle pratiche colturali storiche, per esempio, nella composizione edafica)?

La Cevasco ha in mente probabilmente i terrazzamenti liguri, ma se pensiamo a molte faggete non tagliate da 40-50 anni (ci sono sì, rimaste fuori dalla storia…), i processi di rinaturalizzazione sono evidenti: dalla riconversione spontanea a fustaia del ceduo alla formazione di una spessa lettiera, abbondante biomassa con insetti xilofagi, e insomma tutto ciò che serve per il ricostituirsi, non diciamo di una foresta primigenia, ma sì vetusta e complessa in termini di biodiversità.

Un processo che certo non cancellerà la storia passata, con quella continuerà in qualche misura a interagire, ma da quella non sarà certo impedito a seguire processi evolutivi riconducibili a fattori climatici, pedologici ecc.

Il dibattito teorico tra approccio storico-ecologico e approccio scientifico-naturalistico, quindi, mi pare si riduca a una questione di equilibrio tra elementi che non sono in contraddizione tra loro. Più problematico mi sembra utilizzare una presunta contrapposizione tra i due approcci per muovere una critica a politiche di gestione del territorio che sarebbero all’origine della rinaturalizzazione degradante del territorio.

In realtà è fatto questa volta incontrovertibile (storicamente) che il tipo di rinaturalizzazione del territorio montano già agricolo e pastorale, in tutta Italia, non è dovuto (se non in misura irrilevante) a forme di decisionalità e progettualità istituzionale, ma piuttosto allo stesso processo storico dell’abbandono e dello spopolamento, cioé alla fine della tradizionale economia agricolo pastorale montanara, questa sì in parte risultato di scelte politiche ed economiche, a livello locale e globale.

Altro argomento assai dubbio — ma per noi significativo — è quello che individua nell’abbandono del territorio e nella conseguente rinaturalizzazione dello stesso effetti di dissesto idrogeologico.

In questo caso è proprio la storia a insegnare che le cose non stanno sempre in questi termini, e, in molti casi, proprio l’azione antropica (storica) ha determinato le condizioni di dissesto alterando equilibri ambientali forse non primevi, ma certamente più vicini a una condizone di naturalità non intervenuta dall’azione umana.

Dal classico del Sereni, molto presente agli storici dell’ecologia, ci limitiamo a questa citazione, molto bella anche dal punto di vista letterario:

A mezzo il secolo XVI, Leandro Alberti, nella sua Descrittione di tutta l’Italia, mostra di aver già piena coscienza della gravità di questi processi, quando ci dice come essendo tanto moltiplicati gli huomini nell’Italia, et non essendo sofficienti i luoghi piani, et consueti di coltivare per produr le cose necessarie per il vivere, è stato necessario altresì di coltivare gli alti ed incolti monti; mentre per il passato, così, dai monti coperti di boschi, scendevano l’acque chiare fra selve et herbette, et scendeano con minor impeto et minor abbondanza, ora invece la pioggia non fermandosi, incontinente scendendo, et seco conducendo la terra mossa oltre il consueto grossa dei monti ridotti a cultura, entra ne’ torrenti, canali et fiumi, con un impeto e con una capacità distruttiva senza precedenti, il che così non occorreva ne’ tempi antichi. (Emilio Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Bari 2017, p. 202)

Sereni tocca, in altri passaggi, il tema del dissesto idrogeologico determinato dall’azione umana, mostrando come, in varie epoche storiche, la consapevolezza degli effetti negativi dell’opera umana sulla stabilità idrogeologica fosse ben presente, tanto che sembrerebbe che solo in epoca moderna tanto successo abbia avuto il concetto opposto.

Anche le fasce terrazzate (che certamente rientrano nell’esempio letterario sopra citato) cui sovente si fa riferimento come ad esemplari soluzioni tecnologiche l’abbandono delle quali sarebbe all’origine di effetti di dissesto idrogeologico, svolgono la loro funzione solo perché e se costantemente manutenute dall’opera umana; richiedono pertanto una costante presenza dell’uomo, come sanno i vecchi contadini, mentre la copertura boschiva precedente, rimossa per crearle, garantiva stabilità ai crinali secondo un processo che Leandro Alberti descrive con una certa precisione e che la moderna scienza geologica potrebbe forse ancora più precisamente dettagliare.

Nell’attribuire alla modificazione dei pendii montani per ricavare fasce terrazzate da coltivare una funzione di stabilizzazione dei versanti e contenimento del dissesto idrogeologico si confondono causa ed effetto, motivazioni e finalità, si omettono dei fattori fondamentali (l’opera richiesta di manutenzione continua da parte dell’uomo), si capitola in fondo davanti a una visione romantico-antropocentrica che con un serio approccio storico poco ha a che fare, e che invece alimenta una retorica che contribuisce, ahimé, alle molte errate scelte di gestione del territorio, le quali non contemplano l’opzione (non sempre, ma spesso necessaria) della non-gestione, del lasciare fare, e questo ci porta ben lontano, ben addentro alla spinta prometeica dell’uomo occidentale oggi divenuta dominante nel mondo dominato dal mito dell’industria e dello sviluppo illimitato.

Non è per tenere in sicurezza il territorio che sono state create le fasce sui pendii delle montagne di tutta Italia, ma per ottenere superficie coltivabile e pendenze meno soggette all’erosione delle acque meteoriche esponendosi consapevolmente al rischio e alla necessità di un lavoro costante sia per mantenere le condizioni così create necessarie per l’attivazione agricola dei versanti, sia per contenere il dilavamento accentuato dalla rimozione del bosco. È vero che la riduzione della pendenza dei versanti ottenuta con le fasce terrazzate diminuisce la forza erosiva delle acque meteoriche, ma solo rispetto a superfici prive di bosco o di arbusti, quelle appunto necessarie per coltivare. L’opera di terrazzamento è una straordinaria invenzione culturale, colpisce per il suo valore tecnologico, ma anche simbolico e poetico, trasmette la sensazione di un titanico dispiego collettivo di energia umana. Ma è soprattutto una destabilizzazione, volta al soddisfacimento di bisogni produttivi basilari, di una condizione naturale anteriore (non modificata dall’opera umana); destabilizzazione che appare opera di stabilizzazione in rapporto a tali bisogni, ossia ai coltivi, quindi ad un ambiente modificato in funzione della presenza umana; non in rapporto ad una condizione di naturalità originaria (o se si preferisce precedente l’intervento umano) e neppure di una ritrovata naturalità.

6. Si potrebbe a lungo esercitarsi nell’analisi dei numerosi esempi di confusione concettuale, non importa quanto in buona fede, sul tema del rapporto tra uomo e ambiente naturale, ma non è questo l’obiettivo di queste mie riflessioni. Quanto sopra argomentato vuole solo portare in evidenza i diversi versanti del discorso e della retorica e come sia in fondo facile cadere dall’uno all’altro e così anche prestarsi a molte strumentalizzazioni. Una gran parte sarà giocata dal fattore sentimentale, e da quelle insidie bisognerà particolarmente guardarsi.

Il paesaggio delle vecchie cartoline è una finestra su di un passato al quale siamo tutti legati (che lo si sia vissuto o meno), anche perché è al tempo stesso a noi vicino di una o due generazioni e però lontanissimo di secoli in virtù di quella straordinaria accelerazione delle trasformazioni socio-economiche che abbiamo conosciuto a partire, diciamo, dal Secondo Dopoguerra.

È curioso notare come, nelle analisi anche più colte delle grandi trasformazioni socio-ambientali del territorio montano, alpino o appenninico, ricorra quasi come un refrain ossessivo il monito a non dimenticare che l’ambiente naturale della montagna così naturale non è (e di solito si attribuisce l’esiziale fraintendimento a qualche non meglio definito “ambientalista di città” o, nella peggiore accezione, “da salotto”), ma frutto del lavoro millenario di chi lo ha abitato e ne ha garantito gli equilibri idrogeologici con la sua fatica e il suo lavoro.

Ben raramente i moderni e contemporanei studiosi della civiltà, delle società e dei territori montani dedicano la loro attenzione a quegli aspetti di criticità legati all’opera umana, al sovrasfruttamento dei versanti montani, delle foreste e delle praterie che era invece fenomeno ben noto e ben rilevato dal cinquecentesco Leandro Alberti poc’anzi citato. Direi che qui agisce proprio quella retorica dell’abbandono che è energicamente suffragata dal mito della buona antropizzazione del buon tempo andato che è poi, forse, più recente, e più legato al nostro tempo (e a una cultura letteraria questa sì urbano-accademica).

È interessante leggere in Moreno Baccichet (Comunità di villaggio e insediamento nelle Alpi friulane: la val Meduna, Forum, 2018, p. 13) il seguente passaggio:

Ancora nell’Ottocento il Bassi (Bassi R. 1886, p. 149), descrivendo l’attraversamento di passo Rest, notava come, a differenza della rigogliosa vegetazione che copre per la maggior parte i monti della Carnia, tutto è deserto e squallore nella valle del Meduna. Ed invano si gira lo sguardo per trovare di posarlo su qualche ameno poggio tutto a prati, o a pascoli o a boschi, invano; tutto è dirupi nudi, tutto è frana. L’infinita ingordigia di quegli abitanti ha spogliato completamente quelle povere montagne, già ricche di boschi.

E ancora:

Tra il XVII e XVIII secolo, un fenomeno di profonda antropizzazione coinvolse tutta l’area di Tramonti. L’aver eluso il controllo politico sulla crescita demografica, mettendo in crisi il sistema delle risorse, condusse questa comunità e la sua valle alle soglie di un vero e proprio disastro ecologico. Sottoposta a un costante aumento demografico la montagna fu spogliata quasi per intero dei suoi boschi, frane e smottamenti erano all’ordine del giorno, ogni luogo sfruttabile fu colonizzato con un insediamento permanente o temporaneo. (Ibidem, p. 12)

Insomma, ci sarebbe una chiave di lettura del fenomeno dello spopolamento non così caratterizzata dalle equazioni abbandono-degrado ambientale, presenza umana-manutenzione armonica del territorio ecc.

Leggete, ancora citando il Baccichet, il seguente passaggio che riflette un punto di vista non ancora condizionato dall’odierna retorica dell’abbandono; direi, almeno apparentemente, più obiettivo ed equilibrato:

Sul finire degli anni Trenta, allorquando il fenomeno dello spopolamento iniziava ad interessare sociologi e urbanisti, c’era chi considerava questo fenomeno un elemento di riequilibrio. Nel 1941 De Simoni (De Simoni G., 1941) evidenziava come le Alpi risultassero essere le montagne più popolate. In questa prospettiva “l’emigrazione fu un correttivo temporaneo, l’esodo soltanto può rappresentare il rimedio definitivo”. Continuava De Simoni sostenendo l’esistenza di uno “spopolamento” potenziale e che, nella realtà, è poi un vero e proprio sovrappopolamento, fenomeno che solo apparentemente è opposto al primo mentre ne è la premessa. (Ibidem, p. 15)

Una riflessione come quella testé riportata si applica naturalmente alla situazione di quegli anni di prima industrializzazione e conseguente attrazione delle genti alpine verso le pianure. Vi si legge sottesa un’altra retorica, allora nascente: l’implicito auspicio che le genti di montagna lascino i paesi per porre la loro forza lavoro a basso costo al servizio del nuovo sviluppo industriale.

Ciò non di meno, appare plausibile il contesto di sovrappopolamento e il conseguente sovrasfruttamento del territorio montano con le relative conseguenze in termini di degrado ambientale: sfruttamento intensivo delle foreste, sovrapascolo, dissodamento di pendii con conseguente aumento dell’impeto e della capacità distruttiva senza precedenti delle acque meteoriche. Siamo a un punto di vista opposto rispetto a quello di chi assume l’abbandono quale causa di ogni degrado.

Temi critici che l’odierna retorica del ritorno alla montagna non sembra tenere in considerazione, da una parte comprensibilmente, essendo la situazione dei territori montani, oggi, esattamente all’opposto di quelle di quei tempi di sovrapopolamento; d’altra parte, però, trascurando il fatto che nel caso di un ritorno ai territori montani, con le loro fragilità (che tali sono, sempre, dal punto di vista della presenza antropica), presenze anche molto più esigue di popolazione basterebbero a mettere in crisi quegli ecosistemi di altura, se si considerano i bisogni enormemente accresciuti dell’uomo moderno, l’impatto amplificato a dismisura delle tecnologie di cui questi si avvale, rispetto ai montanari d’antan, alle loro frugali economie di sussistenza, ai loro bisogni essenziali e neppure, a ben vedere, completamente soddisfatti all’interno dei territori di insediamento comunitario (si pensi, intendo dire, ai lunghi periodi di permanenza emigratoria nelle pianure dei lavori stagionali oppure, dalla metà dell’Ottocento, al trasferimento nelle terre d’oltreoceano di porzioni consistenti di popolazione).

7. Queste considerazioni implicano una diversa rappresentazione della presenza umana abitante il territorio, potremmo dire un’introiezione, all’interno del progetto di riabitare, del suo opposto, ovvero di quella scarsità di presenza abitativa oggi letta esclusivamente quale criticità e invece elaborabile in termini di valore o di rivalorizzazione alla luce di diversi parametri di socialità non necessariamente, o solo parzialmente riproducenti le forme antiche, conosciute, rimpiante o maledette, di relazione umana: quelle della società contadina tradizionale, impostata sulla famiglia patriarcale, sulle distanze e relazioni dettate dalla struttura socio-economica della piccola proprietà della montagna, sulle ritualità e le forme necessitanti della convenzione e del rito; ma anche quelle dei modelli urbani, tecnologici, burocratici ed economici, superabili forse, le une e le altre, in forme di nuova convivialità informale che attingano a quelle forme di vita e gestione dei beni e dei tempi comuni già presenti in quel mondo antico, forse rivitalizzabili nell’incontro con quanto di valore ha prodotto in termini di umanità, varietà e apertura al possibile relazionale, la società urbana moderna e post-moderna; ma soprattutto forme di reinvenzione e trasvalutazione dei parametri di benessere e dei valori imposti dal consumismo: concetto ormai logoro, è vero, tanto da essere ormai lasciato da parte o pronunciato con un certo imbarazzo, ma solo perché mutato in complessità e nelle forme del suo manifestarsi, non nella sua sostanza; solo perché una certa letale rassegnazione ci impedisce oramai di concepirne il superamento se non in pochi idealistici slanci di pochi. (Un discorso che credo abbia molto a che fare con il concetto di mente locale elaborato dall’antropologo Franco La Cecla, al pari del secondo tema, del perdersi, di un suo libro precedente [2]).

Così, mi pare molto pericoloso rimuovere il tema dell’impatto potenziale di quel ritorno alle montagne così universalmente e sommariamente auspicato dai più vari soggetti sociali, culturali, politici, imprenditoriali, e così emotivamente e sentimentalmente propugnato quale unica possibile sorte delle terre di altura, affinché possano sottrarsi ad un drammatico destino di abbandono.

Quale ritorno? E a fare cosa e come? Queste sono le domande usualmente eluse.

Impiantare vigne e noccioleti nei terreni oggi incolti e invasi da rovi in evoluzione verso nuove formazioni boschive e un tempo terrazzati e coltivati a cereali, fagiolane, patate. Potrebbe sembrare a molti una buona idea, tranne che (ammesso che tali colture corrispondano ad un ritorno di abitanti nei territori interessati) a farne le spese sarebbe la qualità del suolo e delle acque, se — come avverrebbe nella maggior parte dei casi — venisse fatto uso di diserbanti e concimi chimici. E anche nell’ipotesi che il tutto avvenisse sotto il segno del biologico, il determinarsi di monocolture porterebbe comunque a un drastico impoverimento della biodiversità e della complessita ecosistemica di vaste porzioni del territorio. Ricordiamoci che il suolo agricolo non è equiparabile al suolo naturale, soprattutto se trattato con prodotti chimici e mezzi meccanici altamente impattanti. Le monocolture non sono mai propriamente biologiche, neppure se non fanno uso di prodotti chimici, perché non biodiversificate.

8. In estrema sintesi, il giudizio delle culture egemoni sugli effetti della presenza e dell’attività del mondo contadino e pastorale sull’ambiente naturale nel corso della storia è stato quasi sempre di decisa condanna: a contadini e pastori, come dimostrato da una vastissima letteratura, vengono attribuiti, pressoché nella loro totalità, gli effetti di degrado ambientale e territoriale su di un ambiente naturale pensato in una sua naturalezza originaria o comunque in una sua condizione indeterminata di anteriorità rispetto all’azione umana. Con la contraddizione palese che i dotti e feroci critici dell’opera contadina e pastorale provenivano poi da quelle classi egemoni che traevano il loro sostentamento e i loro profitti proprio dallo sfruttamento intensivo delle risorse del suolo e dall’utilizzo del plusvalore commerciale e fiscale.

Salta subito all’occhio, comunque, il rovesciamento di prospettiva che fa sì che l’odierna retorica attribuisca invece al mondo agro-pastorale del recente passato la funzione di custode e manutentore degli equilibri geomorfologici e idrogeologici degli ambienti naturali, in particolare della collina e della montagna.

Le due opposte retoriche, come tutte le retoriche, poggiano su forzature argomentative, su occultamento di argomenti e di fatti. I potenti del passato tutelavano le foreste dai bisogni di terreni e pascoli dei contadini, ma i grandi diboscamenti per i cantieri navali delle serenissime repubbliche marinare o per alimentare fornaci e ferriere rispondevano agli interessi di gruppi di potere economico e politico e non certo a quello delle comunità contadine; l’odierna enfasi sull’equilibrio idrogeologico del mondo contadino d’antan, nell’esaltazione di ciò che è irrecuperabile in quelle forme alla luce dei nuovi bisogni e delle nuove strutture sociali, nasconde pretestuosamente il vuoto di progettualità di attori politici che non sono in grado di elaborare la complessità del tema, né, tutto sommato,, interessati a farlo, traendo spesso profitto da quei capitali istituzionali essi pure orientati verso un utilizzo formalistico e retorico (e proficuo per pochi).

In entrambe queste due contrapposte retoriche, la grande rimossa è la natura in quanto tale, non come nozione astratta, ma nelle sue funzioni biologiche ed ecosistemiche, all’interno delle quali l’uomo si colloca come soggetto storico, il che non esclude, ma anzi sottolinea, la sua dimensione di naturalità, prioritaria e fondante rispetto alle strategie di attivazione produttivistica.

9. Perché il concetto di abbandono e rinaturalizzazione degli ambienti un tempo coltivati non potrebbe interagire dialetticamente con quello di ritorno e recupero degli stessi, quando una in fondo semplice analisi delle mutate condizioni storiche porterebbe senza gran sforzo argomentativo a tale sintesi? Ovvero a concepire una situazione in cui il coltivato (un tempo eccessivo) e l’incolto (oggi eccessivo) concorrano a determinare un quadro ecosistemico fondato sull’armonizzazione delle due polarità.

Sorge il sospetto che la ricerca storica, archeologica, paesaggistica, con i suoi indubbi meriti scientifici, soggiacia un po’ troppo a una visione, per così dire, popolare, mass-mediatica, semplificante, di un passato dove tutto era saggezza e cura, e un presente dove le forze cieche della natura (che poi neppure natura vera è — ci si dice — improntata com’è da millenni dall’opera dell’uomo) cancellano i paesaggi storici, quasi che questi non fossero, appunto, storici, soggetti da sempre a svariate trasformazioni, e tra queste trasformazioni non possa rientrare, con le sue ragioni, anche la natura, a riconnotare spazi e funzioni ecosistemiche al di fuori dei parametri antropocentrici e delle categorie culturali e psicologiche del dominante ordine paesaggistico, turistico e produttivistico.

È difficilmente confutabile il fatto che da secoli o millenni il rapporto dell’uomo con l’ambiente naturale è stato un rapporto di sfruttamento economico finalizzato alla sussistenza (per le comunità locali) o all’accumulo di ricchezza (per i grandi possidenti e i potenti dell’epoca). Anche le più illuminate disposizioni atte alla conservazione dei patrimoni (patrimonio, appunto) naturali furono comunque sempre finalizzate alla pianificazione migliore (o ritenuta tale) del loro usufrutto.

La consapevolezza del valore naturalistico in sé era presente solo in pochi spiriti illuminati e per lo più declinata in termini di valore spirituale, mistico, estetico, poetico. La visione produttivistica degli ambienti naturali perdura con pieno vigore anche nei nostri tempi, e anzi sembra trarre ulteriore alimento proprio dalla retorica dell’abbandono.

Come si è visto, tale visione alligna sia nel dire comune sia nell’analisi degli studiosi del territorio, mentre sembra che la considerazione dei valori ecosistemici in sé degli ambienti naturali (e della loro funzionalità alla vita degli individui e delle comunità, al di fuori di forme di sfruttamento e attivazione economica) sia confinata alla sensibilità di naturalisti, escursionisti consapevoli e amanti della wilderness.

In realtà non c’è ragione che tale frattura esista. Oggi, a fronte dell’emergenza ambientale planetaria da tutti (o quasi) riconosciuta, dovrebbe essere un passo quasi automatico assumere la natura e le sue manifestazioni ambientali e paesaggistiche all’interno di un quadro di armonizzazione tra funzioni ecosistemiche spontanee degli elementi naturali e utilizzo ecologicamente sostenibile degli stessi (agricoltura, pastorizia, selvicoltura naturalistica), due aspetti egualmente indispensabili per l’abitare (o meglio forse: il vivere) umano nel mondo.

Dovrebbe essere un concetto acquisito e metabolizzato culturalmente il fatto che un arbusteto di invasione rappresenta un habitat per uccelli e insetti impollinatori, non un terreno sporco, sottratto all’utilizzo dell’uomo, sprecato, ma al contrario, di utilità fondamentale per la nostra stessa specie; e la rinaturalizzazione del territorio parte della sua storia, nei suoi molteplici aspetti e molteplici implicazioni, fondamento, conditio sine qua non, di un futuro nuovo e antico abitare.

Eppure la percezione del processo di rinaturalizzazione delle alte terre come di una catastrofe (o apocalisse, in senso demartiniano), umana, sociale ed anche ecologica, non è priva di fondamento, considerando la scomparsa di antichissime forme di presenza e identità culturale di comunità organizzate intorno a valori, saperi e tradizioni antichissimi, come pure di habitat ed ecosistemi risultanti dalle profonde modificazioni dell’ambiente naturale operate da quelle stesse comunità, come i prati-pascolo, i castagneti, le fasce terrazzate là dove erano macchie e foreste.

Bisogna tuttavia, a mio vedere, chiedersi se questi valori, saperi e tradizioni sarebbero sopravvisuti al sopravvivere di comunità presenti sul territorio nelle nuove forme della modernità. D’altra parte, questo processo di rinaturalizzazione, se rappresenta una catastrofe, cioé — etimologicamente — un rivolgimento o sovvertimento di quell’ordine antichissimo, esso non ne è la negazione assoluta giacché al suo interno custodisce le condizioni per un ritorno di quello stesso ordine in forme diverse, non più quelle segnate dal bisogno di ricavare il massimo dell’utile dal suolo e dal territorio, ma quelle, ancora da elaborare, forse da inventare (raccogliendo, custodendo, salvaguardando anche la più minuta testimonianza di quelle antiche forme di vita e cultura), di un vissuto che in sé accolga e armonizzi in un nuovo equilibrio le ragioni profonde dei processi spontanei di natura e quelle, altrettanto potenti, delle umane istanze culturali.

Così anche risolvendo una falsa e pericolosa contrapposizione tra i processi naturali spontanei e l’intervento dell’uomo nei confronti di quelli, non più volto a domarne le forze, ma ad assecondarle con nuovi criteri di progetto e di azione.

Così che da questo risalti in tutta evidenza la vera contrapposizione esiziale, la nuovissima catastrofe (e questa sì, apocalisse nell’accezione più propria e drammatica del termine) che già l’uomo sta fronteggiando senza che si profili all’orizzonte un livello di consapevolezza anche lontanamente sufficiente ad opporsi a questo stare, a questo agire, scellerato e nemico, nel mondo e nella natura.

Note

1. Il rimando al concetto di crisi di presenza come pure all’altro caposaldo concettuale del pensiero demartiniano (l’Apocalisse) mi è stato suggerito (o favorito) dalla studiosa Amina Bianca Cervellera, impegnata in una ricerca che credo abbia molte e stimolanti affinità con queste mie note. Per il pensiero di Ernesto De Martino e il concetto di crisi di presenza si veda almeno Morte e pianto rituale: dal lamento funebre al pianto di Maria, Boringhieri, Torino 1983.

2. Franco La Cecla, Mente locale: per un’antropologia dell’abitare, Eleuthera, Milano 2015; Perdersi: l’uomo senza ambiente, Laterza, Roma-Bari 2000.

Articolo tratto da Dove comincia l’Appennino – Note culturali e naturalistiche sul territorio delle Quattro Province

Un etnografo nel suo paese

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ANIME DI LUOGHI
di Vito Teti

Il testo qui pubblicato è la lectio magistralis tenuta durante il primo Convegno nazionale “Da borghi abbandonati a borghi ritrovati” – organizzato dall’Associazione ‘9cento a Pistoia nell’ottobre 2018 e insignito della “Medaglia del Presidente della Repubblica Italiana”.
Esso conserva, volutamente, i toni spontanei del parlato di fronte a un uditorio di amici studiosi e ricercatori.

Così Pietro Clemente nella sua Introduzione alla sessione in cui ero impegnato così precisava:

Questo incontro è cominciato già stamattina con una forte attenzione e anche con competenza delle Istituzioni sulle problematiche che noi stiamo discutendo in questi giorni. Questa sessione, seguendo il copione del convegno, ha come titolo questa domanda: “Da dove partiamo per arrivare fin qui?”. Il primo ciclo di interventi è dedicato all’abbandono dei centri minori ed è una sorta di introduzione. Ecco, questa introduzione è affidata soprattutto al primo intervento di Vito Teti che abbiamo chiamato “Lectio magistralis” perché in qualche modo Vito è un maestro dell’antropologia del restare, della restanza, termine che ha coniato Vito dall’interno del suo mondo perché Vito è uno che è restato, quindi vive a San Nicola Da Crissa, un piccolo paese della provincia di Vibo Valentia, e si muove nello spazio calabrese, dentro una storia di famiglia che lo porta ad aver avuto i genitori e i parenti in Canada, le storie dei ritorni, a vivere le estati con questo pieno di persone che vengono per le vacanze così come durante i periodi dei pellegrinaggi e poi vederli scomparire e così via. E poi, diciamo, è un antropologo dall’interno del mondo delle migrazioni e del restare. Al di là della fratellanza che accomuna gli antropologi non sempre e non tutti ma nel nostro caso sì, abbiamo incontrato Vito Teti all’interno di un progetto, quello dei Piccoli Paesi che è venuto dopo un altro progetto, quello chiamato la Rete del Ritorno, che nasceva dall’incontro fra la Fondazione Nuto Revelli con l’Università della Calabria e che era dedicata proprio al tema dei piccoli paesi e dello spopolamento. Ecco quindi che Vito per tutte queste ragioni e per i libri che ha scritto che sono ricchi di esperienza personale, di poesia, ma anche di riflessione teorica-antropologica era la persona più adatta per questa introduzione e gli siamo davvero grati anche perché, lasciando, per queste due giornate, difficili e profonde ragioni familiari che lo tengono legato molto al suo paese, ha accettato di aprire questo incontro

Clicca qui per scaricare l’intervento.

Vivere ai margini. I vuoti a perdere del paesaggio abbandonato.

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Antonella Tarpino

Dalla montagna alpina povera agli Appennini, alle zone interne l’Italia si scopre fortemente squilibrata. Tra aree che continuano a spopolarsi e periferie urbane cresciute a dismisura.


Il paesaggio in abbandono — dalla montagna alpina povera agli Appennini, alle zone interne — è particolarmente esteso in un Paese, l’Italia, fortemente squilibrato. Diviso com’è fra i “troppo vuoti” delle aree in spopolamento (più di seimila paesi sono del tutto spopolati e altrettanti contano meno di 5000 abitanti) e i “troppo pieni” delle periferie urbane cresciute a dismisura, nell’età dell’industrializzazione, e delle coste, oggetto di una incontinente speculazione. Un Paese che ha perso la sua forma, “spaesato” (a voler premere sulla s — oppositiva) se osservato nel disegno incoerente dei suoi insediamenti. Dove interi territori sono diventati per l’appunto vuoti a perdere, facendoci sentire, se incappiamo in qualcuno dei tanti borghi in disfacimento, spaesati, a nostra volta, disorientati, incapaci di collocare quelle visioni fantasmatiche nella nostra quotidianità.


E sono forse state proprio le macerie del presente, nel paesaggio urbano reso opaco nel corso degli anni proprio dai crescenti vuoti industriali e dalla loro spesso incerta riconversione, ad avermi fatto rivolgere uno sguardo nuovo sui tanti luoghi dell’abbandono relegati gradualmente ai margini dell’asse dello sviluppo. Ho alzato lo sguardo in alto verso le montagne, dove nell’epoca del boom intere comunità sono state trascinate in pianura a lavorare nelle fabbriche. E ora, che molte fabbriche, nel mondo postindustriale in cui viviamo, sono a loro volta abbandonate?
Uso un termine che ha a che fare con la vista, e non casualmente, perché il paesaggio è anzitutto sguardo e rivolgergli nuovi, mutati, sguardi significa puntarli, oltre la superficie, sulle sue forme segnate dal lavoro umano nel tempo: lì, dove sta il senso perduto di quei luoghi spopolati ma anche la speranza di un più lento, virtuoso, ricominciare. È allora che il paesaggio finisce per costituire, per le comunità che lo abitano, l’orizzonte entro il quale, per usare le parole del poeta Andrea Zanzotto, ci si «rende riconoscibili a se stessi»: è il venir meno di un linguaggio proprio infatti — così è successo per l’antica cultura della montagna — il farsi raccontare dagli altri, dallo sguardo dei turisti o degli investitori («il diventare invisibili a se stessi») la premessa dello spopolamento, dell’abbandono di intere aree.

Uno sguardo ancora denso di senso di quel paesaggio, come per Zanzotto, lo ritroviamo nelle parole di Pier Paolo Pasolini quando ricorda i muretti della sua infanzia («con la piccola porta ornata e l’archetto») che dividevano gli orti dai campi. E senza i quali — rifletteva — anche i palazzi più sontuosi o le cattedrali finivano sospese in un vuoto di incomprensibilità.
È vero allora che recuperare quello sguardo vuole dire cambiare prospettiva, rovesciare i parametri stessi per raccontare quel paesaggio, dando un nuovo significato alle parole che sono state usate per definirlo: margini, limiti, confini, senza dimenticare poli quali centro/periferia quando il centro nello spazio globale si è del tutto relativizzato. Si tratta, in sostanza, di rinunciare al lessico attardato di queste che io chiamo «geografie negative». E di far sì che parole come “limite”, da termine di origine militare (il “limes”) riscopra la sua natura di avvertimento, di superamento di una soglia — mutandosi da ostacolo in valore — fino a farci sentire responsabili della sopravvivenza di un pianeta minacciato da rischi ecologici e climatici. Perché se si vuole salvaguardare i luoghi dalla furia anonima dei flussi e dagli sconquassi del globale, che come un’onda di piena rischia di travolgerli, occorrerà quotare a valore un nuovo sentire.
Non ultimo anche la parola ritorno ai luoghi del margine e dell’abbandono (sempre più numerosi gli esempi, dalle borgate alpine, alle cascine nel cuore di Milano, ai borghi della Sardegna) ha a che fare con la «rivoluzione dello sguardo» perché il ritorno va inteso non come un movimento all’indietro semmai una sperimentazione in avanti. Il ritorno è allora il lavoro di uno sguardo non nostalgico, come mostra la stessa etimologia del termine, che viene, l’ho ripreso dal dizionario di De Mauro, da “girare il tornio” per contaminare saperi sperimentati nel tempo e nello spazio locale con innovazioni di ordine culturale e tecnico (è il caso, in particolare, delle Associazioni fondiarie in campo agropastorale). Un lavoro, questo è lo spirito del ritorno, non sul come eravamo ma su che cosa, tornando, vogliamo diventare.
Per queste ragioni ripensare al significato delle parole che usiamo per raccontare il paesaggio non è un gioco astratto ma una propedeutica essenziale ai processi di “ritorno” ai paesaggi dei margini perché senza esperienze di ripopolamento della montagna e del mondo rurale, gli stessi termini di cura e tutela del patrimonio paesaggistico (e anche artistico) finiscono col perdere di significato.
Riflessioni, queste, tanto più necessarie nel momento in cui si ragiona sui flussi innescati da Pnrr, occasione da non sprecare focalizzandosi solo sui grandi attori centrali (le aree metropolitane, le grandi opere, i centri di consumo di ambiente e di territorio) poco compatibili con l’idea di sostenibilità e, per l’appunto, di limite.

Articolo pubblicato da repubblica.it del 16 Febbraio 22