I giovani, protagonisti di una montagna nuova

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di Federica Corrado e Stefano Sala

La qualità della vita di chi vive in montagna è maggiore e questo spinge i giovani a impegnarsi in percorsi di studi e attività in piccoli comuni fornendo un importante presidio territoriale.
Una pletora di buone pratiche e modelli replicabili in diversi territori montani italiani cui è necessario dare voce.
Specialmente dopo il periodo di pandemia che la nostra società ha vissuto, la frequentazione della montagna risulta essere sempre più diffusa e popolare e molti sono i giovani che si avvicinano a questa realtà per sport quali l’arrampicata, il trail running o semplicemente per trascorrere i loro weekend sui sentieri o frequentare i piccoli paesi di cui l’Italia è composta ma anche, seppur in numero limitato per iniziare ad intraprendere percorsi diversi di vita e innovativi progetti economici.
Nonostante queste recenti dinamiche, non possiamo affermare che oggi ci sia stato un vero e proprio cambio di paradigma: la maggior parte dei giovani si concentrano nelle grandi città e nei centri urbani dove sono concentrati i servizi (scuole, ospedali, bar, cinema) e vedono il loro futuro in questi ambienti dinamici e ricchi di opportunità lavorative, seppur distanti da un ambiente che è sempre più fragile a causa dei cambiamenti climatici in corso.
Per provare ad andare oltre, con l’idea di superare anzitutto quelle immagini e narrazioni che sembrano sempre contrapporre la città alla montagna, questo numero intende indagare e comprendere a fondo il rapporto giovani-montagna guardando dentro quella nicchia di giovani che i tanti paesi sparsi sulle Alpi e sugli Appennini decidono di viverli 365 giorni all’anno, facendo ancora oggi una scelta difficile e facile allo stesso tempo. Difficile perché i servizi scarseggiano (esistono zone d’Italia ancora non coperte dalla rete telefonica), le comunità sono sempre più frammentate anche nei piccoli paesi ma – soprattutto – perché le distanze e le tempistiche che il vivere in montagna richiede sono diverse da quelle che la società moderna richiede. Facile perché la qualità della vita è maggiore, si ha accesso ad ambienti unici e soprattutto si può vivere in maggior simbiosi con l’ambiente che ci circonda. Proprio questi elementi spingono giovani a impegnarsi in percorsi di studi dedicati e ad aprire la propria attività in piccoli comuni fornendo pertanto un importante presidio territoriale. Una pletora di buone pratiche e di modelli replicabili in diversi territori montani italiani hanno oggi i giovani come protagonisti ed è dunque necessario dare voce a queste coraggiose esperienze. In quest’ottica, sono tante le esperienze in corso che ci restituiscono l’entusiasmo, le capacità e lo sguardo nuovo dei giovani sulla montagna, uno sguardo lontano dalla retorica che oggi ci attanaglia sul recupero dei borghi e che poco ha a che fare con la vera e complessa vita nelle nostre montagne.

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Margine e risorsa

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di Silvia Passerini

Da tempi non sospetti l’Associazione Thara Rothas in collaborazione con la Rete del Ritorno si batte per evidenziare le risorse presenti nei territori marginali, circa il 60% dell’intero territorio nazionale. Seppur a rischio di desertificazione e con sostanziali problemi strutturali, come la mancanza di servizi e i rischi idrogeologici, i margini sono il luogo in cui più facilmente si rintracciano esperienze tra le più significative di nuovi stili di vita. Esperienze volte all’agricoltura consapevole e ad una produzione di valore che sa mettere al primo posto il rapporto uomo-natura costruendo nuove comunità che guardano al bene comune come una meta importante da raggiungere.

Guardare ai margini come potenziale di sviluppo innovativo è la visione reale che si pone davanti a noi, indipendentemente dalle forze che possono entrare in gioco. È un campo d’azione in cui è possibile portare la migliore esperienza, frutto di una rilettura coscienziosa e critica della più recente storia umana.

Le storie di chi torna sono storie di vite di tutti i giorni, di persone consapevoli che tentano di tramutare un bisogno collettivo, in realtà. Tutto ciò richiede impegno e costanza, determinazione e orgoglio, fatica e tanta forza di volontà.

Tornare è un po’ come resistere alle cecità del nostro tempo per sviluppare visioni futuribili per l’oggi e per chi verrà. Preservare per non estinguersi, ritrovare le antiche alleanze con il mondo naturale intercettando il concetto di memoria che interseca punti generazionali, apparentemente molto lontani, ma invece, mai così vicini come oggi.  Molte le nuove occupazioni che si lasciano ispirare dal passato per individuare oggi un connubio fra antico e nuovo, tradizione e innovazione tecnologica. Chi torna ai margini si occupa della cura della Terra, spinto dal desiderio di un cambiamento che inizia dalla propria vita per poi riflettersi sull’intera collettività.

Tornare alla terra consapevolmente e per scelta, è la più grande rivoluzione e innovazione dei nostri tempi.

Chi torna non pensa alla produzione industriale o alla grande distribuzione, anzi la nega nelle sue dinamiche e nei suoi obiettivi. Chi torna ama gli odori delle stagioni e gode dei colori che un ambiente, di nuovo selvatico, sa offrire. Chi produce con attenzione e consapevolezza, ama il suo lavoro e intende trasferire il valore che vi è in ciò che fa imparando a ricucire le relazioni e dar vita a nuove comunità, le stesse che dagli anni ’50 in poi hanno subìto una vasta polverizzazione.

Chi torna sa che necessita un’operazione lenta ma costante: aprire relazioni e condividere saperi. Costruire, o meglio ri-costruire le Comunità locali.

Sarebbe ingiusto definire tutto ciò nostalgico o romantico perché è un gesto che è carico di fatica, lucida e fortemente consapevole, quasi irrinunciabile. Forse è anche rappresentativa della ricerca di una pace generazionale che riconosce oggi il lavoro di nonni che, in tempi più lontani, furono costretti a rinunciare a depositare il loro sapere nelle mani dei più giovani, consegnando ogni cosa invece ad un tempo di oblìo.

Ecco forse questo è un modo per dire che non abbiamo dimenticato e che quegli strumenti, come quelle fatiche, non sono state vane, ma ancora insegnano, oggi che mani giovani sono tornate.

E a chi ieri diceva che alla terra sarebbero tornati i laureati oggi possiamo dire che aveva ragione, non a caso all’agricoltura e all’allevamento di qualità si avvicinano e sono protagonisti profili di persone con percorsi di studi universitari, dove si coniugano competenze culturali, tecnico-scientifiche ma anche informatiche.

Così si torna per scelta e cambiamento culturale, si torna per vivere meglio e star bene, proteggendo la propria salute e quella degli altri. Si torna usando ma mai consumando territorio, piuttosto bisogna essere in grado di restituire. Si torna per non essere consumatori di un mercato ma per essere utilizzatori consapevoli per un bisogno primordiale: vivere.

Insomma si torna per rispondere ai bisogni del nostro tempo disegnando linee libere dalle griglie del sistema. Trovare risposte è ciò che rende il ritorno protagonista del nostro tempo.

È strano a dirsi ma, dove esiste il problema e dove è più forte, lì c’è la soluzione più interessante, tutto il resto risulta quasi un surrogato, frutto di politiche e strategie dei sistemi centralizzati assai distanti dalla realtà.

Chi torna non fa troppo conto sui fondi pubblici bensì sul lavoro condiviso e di rete, utilizza lo scambio e l ’auto-produzione o il reciproco soccorso.

Anche l’abitare e il costruire spesso si basano sull’alleanza uomo-natura, si vedano le esperienze di auto-costruzioni in paglia e argilla ma anche di case in legno o pietra.

Forte è il senso di responsabilità delle proprie azioni, che porta a sentirsi protagonisti attivi del proprio tempo.

Riccardo, un giovane padre spiega il suo impegno nell’aver contribuito al miglioramento della collina in cui abita, eliminando un vecchio capannone con un tetto in Eternit per edificare una casa in auto-costruzione in argilla e paglia regalando così alla Comunità un paesaggio armonioso e sostenibile.

Francesco invece si preoccupa di manutenere il bosco e i campi della casa che gli è stata data, in uso gratuito, dal proprietario che non se ne faceva più nulla. Vive di frutti spontanei e del suo orto. Sperimenta nuove possibilità sostenibili come il vivere di sola energia solare e il riuso della lana, che oggi viene considerata rifiuto speciale. Francesco dice: «si può vivere usando poco e curando ciò che abbiamo di più prezioso».

Elena, alla morte della nonna pastore, capisce il valore dell’opera compiuta e decide di occuparsene lasciando le precedenti mansioni, apparentemente più redditizie. La sua soddisfazione è quella di non aver lasciato andare ciò che per sua nonna era stato vitale e quindi di aver tenuta viva la cultura della pastorizia e della nonna offrendo a lei una vita più naturale.

Fabio invece, per coltivare i suoi campi di montagna, pratica la trazione animale e sostiene che sia molto più economico che utilizzare il trattore e che solo così si può avere cura del proprio territorio, infatti solo camminando sulla terra la si può conoscere ed amare in ogni suo angolo e piegatura.

Giacomo coltiva prodotti orticoli e frutti antichi, pratica esclusivamente la vendita diretta per lui è l’unica modalità di commercializzazione perché nel suo lavoro ritiene che ci debba essere il trasferimento di conoscenza che può avvenire solo se, chi compra, si reca direttamente sul campo e comprende il lavoro svolto. Giacomo coltiva in biodinamica, come molti altri, non ha alcuna certificazione perché troppo costosa e non sempre garante, lui dice: «non c’è miglior certificazione che la conoscenza diretta del come viene prodotto».

Le attività sono spesso il frutto di una rilettura fra passato e presente; c’è chi fa cosmesi allevando asini, chi si occupa di erbe officinali, chi di prodotti caseari, artigianato misto fra tecnologia e antichi saperi, e altro ancora. Sanno evidenziare la natura del luogo utilizzando ciò che altri ritengono rifiuto.

In una recente ricerca condotta dall’Università Statale di Milano per la Regione Lombardia in merito ai nuovi imprenditori di montagna, cui ho contribuito, è emerso che chi si occupa della cura del territorio, del paesaggio e sperimenta nuovi stili di vita, non produce redditi importanti ma comunque riesce a produrre risorse economiche che consentono di accedere ai beni non direttamente prodotti. Non vi è ambizione di uno spietato business semplicemente perché non è l’obiettivo principale. Ciò che importa infatti è il cambiamento a cui si è chiamati a contribuire, ognuno nel suo ruolo e nel suo quotidiano, sottolineando la necessità di invertire il paradigma fin qui adottato.

Non sono il centro e le sue dinamiche a dominare la scena bensì il margine e le sue soluzioni.

È sempre più chiaro che curare il territorio ha un valore sociale e che questo è ciò che prima di tutto va riconosciuto. Produrre cibo facendo paesaggio significa tutelare il territorio.

I terreni agricoli biologici sono in gran aumento, FederBio OFOM dichiara che in Europa ci sono 15 milioni di ettari e 400 mila operatori impegnati. Ciò non significa che tutti siano corrispondenti alla narrazione appena fatta, ma certamente le lancette si stanno spostando e al di là delle ricerche, delle strategie centrali o qualsiasi dato scientifico rilevato, qualcosa, proprio nei territori marginali, sta succedendo, ma soprattutto qualcuno, senza attendere che altri facciano, sta già facendo. Nessuna strumentalizzazione però, ma riconoscimento e gratitudine per chi, sulla propria pelle, sta sperimentando un futuro possibile.

È a questo che l’Associazione Thara Rothas con il sostegno della Rete del Ritorno e della Fondazione Nuto Revelli, si è voluta dedicare, incontrando il favore e la comune visione di Ed.Terre di Mezzo. Insieme hanno dato vita, all’interno della manifestazione/Fiera “Fa la Cosa Giusta” – Milano (organizzata da Ed. Terre di Mezzo) ad un settore dedicato “Territori Resistenti” ove annualmente è diffusa una fitta programmazione culturale.

Un impegno utile che guarda a ciò di cui vi è bisogno più a ciò che fa tendenza.

Un impegno doveroso per chi, come noi, crede che sia giunto il momento di cambiare i paradigmi fra centro e margine.

Articolo pubblicato su Dialoghi Mediterranei, n. 39, settembre 2019

“La Restanza” di Vito Teti

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Antonella Tarpino

“La restanza” di Vito Teti (Einaudi 2022) spiega l’importanza di viaggiare da fermi, del senso di una scelta, inquieta, quella di continuare a vivere nei propri luoghi anche se divenuti invisibili, caduti ai margini.

Pochi come gli antropologi di oggi sanno parlarci dell’importanza di viaggiare da fermi, del senso di una scelta, inquieta, quella di continuare a vivere nei propri luoghi anche se divenuti invisibili, caduti ai margini (come è il caso di Vito Teti in La restanza, Einaudi 2022). Di raccontare, di spiegare ai rimasti e forse, prima di ogni cosa, al «se stesso rimasto» dissidi, e convinzioni. Così da trasformare il rapporto stesso dell’antropologo con l’“altrove” mediante un’opera di de-familiarizzazione del proprio contesto:

“Amo i miei luoghi e, a volte, odio restarvi e vorrei disseminarmi in tutti i luoghi del mondo – confessa Teti parafrasando la celebre frase di Lévi-Strauss – avverto spesso la frustrazione del restare per cambiare un mondo che non sembra voler cambiare, che anzi sembra scomparire e morire giorno dopo giorno ed ecco che mi accingo a raccontare il senso, il disagio, la bellezza, di vivere nel luogo da cui osservo il mondo”.

 Eppure il restare oggi, a fronte delle migrazioni infinite che ridisegnano il mondo, si configura non più come accettazione di un destino, ma come volontà, come scelta, quasi sempre lacerante, dolorosa. Chi resta, gli ultimi guardiani degli abitati in abbandono, mostrano a Teti antropologo, “in diaspora” con se stesso, il senso di un obbligo morale di non abbandonare il luogo natio, di non lasciarlo morire in solitudine, di vegliarlo, come si fa per una persona cara. Sapevano tutti di essere gli ultimi abitanti – racconta – ma in cuor loro speravano che qualcuno potesse tornare da fuori, o magari arrivare da un altrove, e con questa idea si impegnavano per lasciare segni, tracce, memorie a uso degli abitanti del futuro organizzando le loro case come tanti musei della memoria, come musei della restanza, quasi da quel piccolo tesoro discendesse davvero una possibilità futura per l’abitato.

Perché, è vero, noi siamo costitutivamente i luoghi in cui siamo nati, siamo i luoghi che abbiamo abitato; siamo i luoghi sognati e desiderati e siamo anche i luoghi da cui siamo fuggiti e che a volte abbiamo odiato, per urgenza d’esistere al di fuori e al di là del perimetro noto. Però – osserva in un passaggio cruciale – ogni luogo non è solo articolazione spaziale, ma anche dimensione della mente, organizzazione simbolica di tempo, memoria e oblio. Ecco che il luogo “antropologico” è tale in quanto abitato, umanizzato, riconosciuto, periodicamente rifondato, dalle persone che ne se ne sentono parte.

Così il termine stesso di Restanza negli ultimi anni ha conosciuto una notevole fortuna, tanto più con l’ambivalenza semantica e concettuale maturata, la fecondità dei contrasti. Il termine indica la scelta di restare vissuta non più come immobilismo e rinuncia, ma come un modo di opporsi allo svuotamento dei paesi, alle difficoltà delle aree interne, al vuoto delle montagne e, per tanti versi, al vuoto delle periferie controbilanciando la forza inerziale del fatalismo con la capacità di guardare e riconsiderare il passato secondo inedite prospettive di riscrittura del presente. Di guardare il centro dalla periferia, di ri-partire dai margini, dai luoghi apparentemente persi alla vita.

Perché oggi restare ha un segno del tutto diverso, e i paesi possono diventare luogo di una possibile futuro, forse più di altri luoghi finiti sotto il peso non delle rovine ma delle macerie (penso alle periferie delle metropoli industriali) ma ciò a condizione che siano immaginati in maniera nuova, che si affermino in quei vuoti modelli di sviluppo differenti, mutamenti di stile di vita, usi adeguati delle risorse, un rinnovato rispetto del territorio.

Si tratta di pratiche e scelte di vita tese a costruire  – continua Teti – una nuova polis, un nuovo modo di abitare e organizzare spazi, economie, relazioni. Occorrono pensieri nuovi e «opere che saranno necessarie sia per rilanciare il valore d’uso – culturale, ricreativo, turistico – di certi patrimoni pubblici e privati, sia per rendere possibili le economie dei soggetti che sceglieranno di frequentare, manutenere e rendere produttivi quei territori senza necessariamente risiedervi stabilmente. In altre parole, che sceglieranno di “riabitarli” in modo nuovo».

In primis  – e qui si riferisce al lavoro di Mimmo Cersosimo –  tornando a riconsiderare il welfare come un investimento, e liberandosi, al contrario, dalla trappola dei bisogni, instaurando comunità di apprendimento che vedano al centro un ripensamento del ruolo e delle funzioni socializzanti e di produzione di saperi. La cultura allora va intesa come diritto di cittadinanza, nel senso più esteso del termine, deve diventare motore di aggregazione civica per rigenerare le aree, dare nuovo valore d’uso agli spazi – siano essi baite abbandonate o interi borghi – che hanno perso tutto il loro valore commerciale, e produrre nuove opportunità di lavoro. Per riconsiderare i guasti delle disuguaglianze territoriali e sociali, per riequilibrare le infrastrutture della cittadinanza locale, per rilegare economia e società, bisogni e lavoro.

Rigenerare i paesi vuol dire fondare nuove Comunità. I paesi non si rigenerano con gli slogan. Non basta ristrutturare qualche casa per invertire dinamiche di infragilimento umano e di rarefazione dei servizi di prossimità spesso oltre la soglia dell’irrimediabilità. Riabitare significa ricostruire comunità, vale a dire creare le condizioni essenziali per consentire di rimanere a chi vuol restare, per favorire il ritorno di chi vuole tornare, per accogliere chi ha maturato la scelta della vita da paese.

Perfino chi resta – questo è l’ammonimento – non resta fino in fondo e fatica a comprenderlo. Se invece lo stesso ritorno è il paese da inventare, allora quel che resta è un universo mobile, dinamico, che può essere riscritto nella sua feconda inquietudine “mitica”. Serve ascoltarlo, riguardarlo, prendersene cura, nominarlo. 

Articolo pubblicato su huffingtonpost.it del 3 Maggio 2022