Ormea, una scommessa di ritorno

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Di Antonella Tarpino

Articolo pubblicato su volerelaluna.it

Nella premessa al suo libro Un’Italia che scompare. Perché Ormea è un caso singolare? Fabio Balocco scrive che quando ripercorre la Val Tanaro da Ceva al Colle di Nava è attirato dalle indicazioni dei poveri borghi addossati «alla destra come alla sinistra orografica» e si immagina quanti abitanti ancora vi risiedano. Queste parole mi han fatto pensare a una riflessione di Nuto Revelli riportata nel suo Mondo dei vinti sommerso, perduto, quando descrive quei paesaggi divenuti incolti, finiti nell’abbandono: «Ormai il paesaggio lo leggo sempre e soltanto attraverso il filtro delle testimonianze. Sono le testimonianze che mi condizionano che mi impongono un confronto continuo tra il passato lontano e il presente. Attraverso quelle storie vedo il mosaico antico delle colture e dei colori anche dove è subentrato il gerbido, dove ha vinto la brughiera, vedo le borgate piene di gente e non in rovina, anche dove si è spenta la vita». Perché quei territori in abbandono li si riescono a leggere solo attraverso gli occhi di chi vi ha abitato, il disegno del lavoro impresso sui campi o sui sentieri dei pastori. Così è nel caso delle tante voci dei testimoni che Fabio Balocco raccoglie ad Ormea e nelle sue frazioni, uno dei Comuni che più hanno subito la piaga dello spopolamento.

Brevi cenni sulle sue origini perché non tutti sanno che il cuneese è stato a lungo area di saccheggio dei Saraceni insediati a Fraxinetum tra Provenza e Costa Azzurra. Tracce della loro presenza sono registrate fin dall’890 e rinvenute proprio nel territorio del Comune di Ormea nella torre del Castelletto (oggi rimangono solo le fondamenta) e nella caverna fortificata detta Balma del Messere a Cantarana, che infatti viene anche chiamata “Grotta dei Saraceni”. Solo a partire dal 1600 sorsero però le numerose frazioni di Ormea: fu da allora che gli abitanti si distribuirono lungo le pendici dei monti intorno al nucleo principale di fondovalle – racconta con dovizia l’autore – anche dove i declivi erano più impervi, grazie soprattutto a opere di terrazzamento in pietra a secco, come avveniva del resto nella confinante Liguria, arrivando anche ad altitudini di 1500-1600 metri sul livello del mare. Si formarono prima dei piccoli nuclei di poche abitazioni e poi vere e proprie frazioni: le famiglie richiedevano al vescovo di poter edificare la chiesa, il camposanto e di poter contare su un sacerdote per le funzioni religiose. Nel ‘700 a Ormea erano presenti 8 canonici, 22 preti celebranti e 5 chierici. Col tempo in quei piccoli centri abitati sorsero dei locali adiacenti la chiesa che potessero ospitare le lezioni per i bambini. E alla fine dell’800-inizio 900, la popolazione del Comune era distribuita equamente fra centro storico e frazioni. Secondo un percorso inverso certo è, invece, che lo spopolamento avviato nel secolo scorso riguardò quasi esclusivamente le frazioni di Ormea, non il capoluogo.

Ma veniamo alle testimonianze. Le condizioni della vita erano dure, unito anche al fatto della parcellizzazione dei terreni – racconta Giorgio Michelis – ognuno era proprietario di piccoli appezzamenti e anche sparpagliati: non c’era una grande proprietà che desse da vivere bene. Non tutte le frazioni erano proprio uguali. «Lo spopolamento di Chionea iniziò negli anni ’50 – ricorda un’altra testimone Odette Sappa –. La vita in montagna era dura, le famiglie avevano galline, qualche mucca e qualche capra, nei campi si coltivava grano e patate e nei boschi si raccoglievano le castagne che una volta secche si conservavano per un anno. La vendita di burro e uova veniva barattata con zucchero, sale e altri piccoli beni. Nei lunghi inverni, quando non si poteva lavorare nei campi, le persone più giovani andavano in Liguria o in Francia a raccogliere le olive o a tagliar legna sotto padrone, ma continuavano a risiedere in paese. Il grande esodo iniziò verso gli anni ‘60, quando le famiglie si spostarono per cercare lavoro in altri paesi. In particolare, in tanti si trasferirono a Monte Carlo per lavorare come spazzini». O alla Grascina (Aligi Michelis) quando «c’erano un tempo alcune persone che erano incaricate di venderne la carne, se era commestibile, alla comunità, e ognuno comprava la carne e pagava in base ai capi di bestiame che possedeva. Invece se moriva di malattia, la colletta veniva comunque fatta, ma ognuno pagava una quota inferiore. Questa operazione si chiamava appunto la “grascina”. Si era poveri, ma c’era un forte spirito di comunità. C’erano dei beni che venivano condivisi, tipo la stadera. E ogni abitante contribuiva a mantenere la mulattiera di accesso alla frazione o alla borgata. La “grascina” è terminata quando in una frazione rimasero solo più due famiglie. Era una specie di assicurazione o, meglio, un mutuo soccorso». Coi bambini che facevano i pastori fin da piccoli come Lidia Sappa che: «a otto anni andavo al pascolo dalla mattina alla sera. E c’era anche chi ci andava a quattro anni. Io mi portavo al pascolo delle fazze da mangiare e un pezzo di formaggio. Le fazze erano delle schiacciate fatte con farina, latte e bicarbonato di sodio come lievitante, che si cuocevano sul piano della stufa. Quando c’era la panna si aggiungeva all’impasto. Con questo pasto andavamo su fino quasi sul Pizzo d’Ormea su pascoli comunali. Per pascolare si pagava una tassa molto contenuta al Comune. Non avevamo il cane, come invece avevano altri. I temporali che mi sono presa lo so solo io. Un giorno tre della frazione vennero colpiti da un fulmine e si salvarono per miracolo. E c’erano alcuni che da Chionea salivano su fino quasi al Pizzo, verso le dieci mungevano, poi portavano giù il latte, risalivano dopo pranzo, mungevano di nuovo e scendevano alla sera».

Anche il paesaggio non è più lo stesso perché i tetti allora erano in paglia, in tutte le frazioni, salvo alcuni, pochissimi, che erano in “lose”. La paglia è stata usata (come in altre aree del Piemonte) fino a una cinquantina di anni fa. Ormea – va detto – come altre aree cadute in spopolamento è ai confini tra due regioni diverse, il Piemonte e la Liguria: ha una parlata tradizionale a sé, differente da quella dei paesi vicini, così come dal dialetto ligure e da quello piemontese. Gli studiosi della materia sostengono che derivi dalle parlate dell’ingauno (Albingaunum era l’antico nome di Albenga).  

E ora? Accentuato spopolamento, chiusura dell’attività industriale che la caratterizzava (la cartiera), fallimento dello sci di pista, rarefazione dei turisti, perdita dell’identità culturale, conclude Balocco: un quadro non certo confortante se si confronta Ormea con il passato che ha conosciuto. Cosa si fa oggi per rivitalizzare Ormea? L’autore lo chiede direttamente al sindaco, Giorgio Ferraris. «Abbiamo avuto un passato importante, a partire dalla fine dell’Ottocento, grazie alla costruzione della ferrovia, che ha consentito una facile e comoda accessibilità turistica quando i territori montani di gran parte delle valli alpine erano quasi inaccessibili e l’insediamento industriale della Cartiera, che è stata per quasi un secolo la fonte principale di occupazione per la nostra Comunità. Con queste opportunità, che si sono create più di un secolo fa, la progressiva marginalizzazione e l’abbandono delle attività agricole sui versanti montani sono stati più rapidi e precoci rispetto ad altre vallate. La crisi della Cartiera è stata una vicenda lunga e tormentata, dalla metà degli anni ‘70, quando aveva ancora più di quattrocento dipendenti oltre ad un indotto significativo, fino alla definitiva chiusura del 2007, quando vi erano ancora un’ottantina di occupati». Contestualmente – continua il sindaco – «abbiamo registrato un aumento notevole dell’età media dei nostri concittadini, perché molti giovani sono emigrati alla ricerca di opportunità di lavoro che la nostra zona non offre. Questo sia a causa del progressivo ridimensionamento e poi della chiusura della Cartiera, che per l’aumento della scolarità, che ha comportato la necessità per molti giovani di trasferirsi in aree dove esistono possibilità di collocazioni professionali adeguate e coerenti con i titoli di studio conseguiti, inesistenti, o limitatissime, sul nostro territorio. Sono cambiate le motivazioni, ma la diminuzione della popolazione residente, inevitabilmente, continua e non si registrano, al momento, inversioni di tendenza».

Tra le realtà però significative di Ormea da valorizzare è la Scuola Forestale con ricadute importanti sul territorio sia per gli stimoli culturali che dà al territorio sia per la rilevanza economica della presenza di un numero significativo di insegnanti e di studenti. Gran parte degli studenti provengono da località del Piemonte e della Liguria che, per le distanze, non sono raggiungibili quotidianamente e sono quindi costretti a risiedere a Ormea, dove molti vivono in affitto in alloggi privati e quelli delle prime classi nel convitto annesso alla Scuola, che può ospitare fino a 70 ragazzi. Oltre a rappresentare un indotto economico, la Scuola costituisce una struttura di eccellenza, unica nel suo indirizzo nel Nord Ovest, che ha collegamenti e interazioni sia con Scienze Forestali della Facoltà di Agraria dell’Università di Torino, sia con tutti gli enti che, a livello nazionale e regionale, hanno competenze e interessi nel settore forestale e più generalmente nell’economia dei territori montani. Sono state intraprese alcune iniziative per incentivare una crescita del settore, come la creazione di un consorzio e la realizzazione di un impianto cittadino di teleriscaldamento alimentato a cippato di legna.

Mi soffermo su questo punto a riprova del fatto che declinare la scommessa del Ritorno in montagna (o della Restanza che è la stessa cosa) con la parola scuola è decisivo. A Paraloup per esempio, la borgata alpina della Valle Stura che proprio la Fondazione intitolata a Nuto Revelli ha recuperato è stata accolta, su iniziativa della stessa Facoltà di Agraria di Torino la prima Scuola del Ritorno o meglio Scuola per i giovani agricoltori di montagna (Sgam) sotto la direzione del prof. Andrea Cavallero specializzato proprio in Scienze forestali. Scuola di Ritorno allora? Sì, perché tanto l’esodo dalla montagna a Ormea (come nelle vallate alpine cuneesi che ha toccato a partire dagli anni Cinquanta tassi di spopolamento superiori al 70%) è stato caotico, sgovernato, tanto i processi di Ritorno, ripopolamento, complessi, legati alla specificità dei singoli territori vanno governati. Imparare a ritornare o a restare (quando tutti i luoghi cambiano in continuazione, secondo l’antropologo Vito Teti) vuol dire anche ricostruire un tessuto sociale, riproporre quelle neocomunità tutte da costruire (nella definizione di un altro antropologo Pietro Clemente) perché sono il prodotto, a differenza che nel passato, di una scelta di vita consapevole. Per chi ritorna ma anche per chi resta. Difendere i territori dallo spopolamento e dall’abbandono vuol dire racquistare una coscienza di luogo (uso la felice espressione degli amici Territorialisti di Alberto Magnaghi) perché i luoghi non sono indifferenti.

Non è una scommessa semplice il Ritorno in montagna, chiamato, com’è a sanare una caduta anzitutto culturale: perché è proprio il venir meno di un linguaggio proprio, il farsi raccontare dagli altri – dallo sguardo ieri dei cartografi degli Stati-nazione (e da ciò che io chiamo le “geografie negative” dei margini, le frontiere, i confini) oggi dei turisti o degli investitori – la premessa dello spopolamento, dell’abbandono di intere comunità. È importante allora, come fa Fabio Balocco, reinterrogare il patrimonio territoriale che abbiamo ereditato perché nella nostra fase opaca, disorientata, priva di direzione, possiamo “riconoscerci”. Riconoscere i nostri territori, è l’impegno crescente di molti di noi, imparare a reinventare un futuro che neanche quello è rimasto in piedi, legato com’è a un’idea un progresso che ha scompensato e violato l’ambiente naturale, lo stesso disegno del Paese, schiacciato com’è tra i “troppo pieni” delle città e delle coste e i “troppo vuoti” delle montagne (appenniniche e alpine) e delle aree interne. Come Ormea, con le sue frazioni svuotate, sta a dimostrare.

Un etnografo nel suo paese

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ANIME DI LUOGHI
di Vito Teti

Il testo qui pubblicato è la lectio magistralis tenuta durante il primo Convegno nazionale “Da borghi abbandonati a borghi ritrovati” – organizzato dall’Associazione ‘9cento a Pistoia nell’ottobre 2018 e insignito della “Medaglia del Presidente della Repubblica Italiana”.
Esso conserva, volutamente, i toni spontanei del parlato di fronte a un uditorio di amici studiosi e ricercatori.

Così Pietro Clemente nella sua Introduzione alla sessione in cui ero impegnato così precisava:

Questo incontro è cominciato già stamattina con una forte attenzione e anche con competenza delle Istituzioni sulle problematiche che noi stiamo discutendo in questi giorni. Questa sessione, seguendo il copione del convegno, ha come titolo questa domanda: “Da dove partiamo per arrivare fin qui?”. Il primo ciclo di interventi è dedicato all’abbandono dei centri minori ed è una sorta di introduzione. Ecco, questa introduzione è affidata soprattutto al primo intervento di Vito Teti che abbiamo chiamato “Lectio magistralis” perché in qualche modo Vito è un maestro dell’antropologia del restare, della restanza, termine che ha coniato Vito dall’interno del suo mondo perché Vito è uno che è restato, quindi vive a San Nicola Da Crissa, un piccolo paese della provincia di Vibo Valentia, e si muove nello spazio calabrese, dentro una storia di famiglia che lo porta ad aver avuto i genitori e i parenti in Canada, le storie dei ritorni, a vivere le estati con questo pieno di persone che vengono per le vacanze così come durante i periodi dei pellegrinaggi e poi vederli scomparire e così via. E poi, diciamo, è un antropologo dall’interno del mondo delle migrazioni e del restare. Al di là della fratellanza che accomuna gli antropologi non sempre e non tutti ma nel nostro caso sì, abbiamo incontrato Vito Teti all’interno di un progetto, quello dei Piccoli Paesi che è venuto dopo un altro progetto, quello chiamato la Rete del Ritorno, che nasceva dall’incontro fra la Fondazione Nuto Revelli con l’Università della Calabria e che era dedicata proprio al tema dei piccoli paesi e dello spopolamento. Ecco quindi che Vito per tutte queste ragioni e per i libri che ha scritto che sono ricchi di esperienza personale, di poesia, ma anche di riflessione teorica-antropologica era la persona più adatta per questa introduzione e gli siamo davvero grati anche perché, lasciando, per queste due giornate, difficili e profonde ragioni familiari che lo tengono legato molto al suo paese, ha accettato di aprire questo incontro

Clicca qui per scaricare l’intervento.

Vivere ai margini. I vuoti a perdere del paesaggio abbandonato.

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Antonella Tarpino

Dalla montagna alpina povera agli Appennini, alle zone interne l’Italia si scopre fortemente squilibrata. Tra aree che continuano a spopolarsi e periferie urbane cresciute a dismisura.


Il paesaggio in abbandono — dalla montagna alpina povera agli Appennini, alle zone interne — è particolarmente esteso in un Paese, l’Italia, fortemente squilibrato. Diviso com’è fra i “troppo vuoti” delle aree in spopolamento (più di seimila paesi sono del tutto spopolati e altrettanti contano meno di 5000 abitanti) e i “troppo pieni” delle periferie urbane cresciute a dismisura, nell’età dell’industrializzazione, e delle coste, oggetto di una incontinente speculazione. Un Paese che ha perso la sua forma, “spaesato” (a voler premere sulla s — oppositiva) se osservato nel disegno incoerente dei suoi insediamenti. Dove interi territori sono diventati per l’appunto vuoti a perdere, facendoci sentire, se incappiamo in qualcuno dei tanti borghi in disfacimento, spaesati, a nostra volta, disorientati, incapaci di collocare quelle visioni fantasmatiche nella nostra quotidianità.


E sono forse state proprio le macerie del presente, nel paesaggio urbano reso opaco nel corso degli anni proprio dai crescenti vuoti industriali e dalla loro spesso incerta riconversione, ad avermi fatto rivolgere uno sguardo nuovo sui tanti luoghi dell’abbandono relegati gradualmente ai margini dell’asse dello sviluppo. Ho alzato lo sguardo in alto verso le montagne, dove nell’epoca del boom intere comunità sono state trascinate in pianura a lavorare nelle fabbriche. E ora, che molte fabbriche, nel mondo postindustriale in cui viviamo, sono a loro volta abbandonate?
Uso un termine che ha a che fare con la vista, e non casualmente, perché il paesaggio è anzitutto sguardo e rivolgergli nuovi, mutati, sguardi significa puntarli, oltre la superficie, sulle sue forme segnate dal lavoro umano nel tempo: lì, dove sta il senso perduto di quei luoghi spopolati ma anche la speranza di un più lento, virtuoso, ricominciare. È allora che il paesaggio finisce per costituire, per le comunità che lo abitano, l’orizzonte entro il quale, per usare le parole del poeta Andrea Zanzotto, ci si «rende riconoscibili a se stessi»: è il venir meno di un linguaggio proprio infatti — così è successo per l’antica cultura della montagna — il farsi raccontare dagli altri, dallo sguardo dei turisti o degli investitori («il diventare invisibili a se stessi») la premessa dello spopolamento, dell’abbandono di intere aree.

Uno sguardo ancora denso di senso di quel paesaggio, come per Zanzotto, lo ritroviamo nelle parole di Pier Paolo Pasolini quando ricorda i muretti della sua infanzia («con la piccola porta ornata e l’archetto») che dividevano gli orti dai campi. E senza i quali — rifletteva — anche i palazzi più sontuosi o le cattedrali finivano sospese in un vuoto di incomprensibilità.
È vero allora che recuperare quello sguardo vuole dire cambiare prospettiva, rovesciare i parametri stessi per raccontare quel paesaggio, dando un nuovo significato alle parole che sono state usate per definirlo: margini, limiti, confini, senza dimenticare poli quali centro/periferia quando il centro nello spazio globale si è del tutto relativizzato. Si tratta, in sostanza, di rinunciare al lessico attardato di queste che io chiamo «geografie negative». E di far sì che parole come “limite”, da termine di origine militare (il “limes”) riscopra la sua natura di avvertimento, di superamento di una soglia — mutandosi da ostacolo in valore — fino a farci sentire responsabili della sopravvivenza di un pianeta minacciato da rischi ecologici e climatici. Perché se si vuole salvaguardare i luoghi dalla furia anonima dei flussi e dagli sconquassi del globale, che come un’onda di piena rischia di travolgerli, occorrerà quotare a valore un nuovo sentire.
Non ultimo anche la parola ritorno ai luoghi del margine e dell’abbandono (sempre più numerosi gli esempi, dalle borgate alpine, alle cascine nel cuore di Milano, ai borghi della Sardegna) ha a che fare con la «rivoluzione dello sguardo» perché il ritorno va inteso non come un movimento all’indietro semmai una sperimentazione in avanti. Il ritorno è allora il lavoro di uno sguardo non nostalgico, come mostra la stessa etimologia del termine, che viene, l’ho ripreso dal dizionario di De Mauro, da “girare il tornio” per contaminare saperi sperimentati nel tempo e nello spazio locale con innovazioni di ordine culturale e tecnico (è il caso, in particolare, delle Associazioni fondiarie in campo agropastorale). Un lavoro, questo è lo spirito del ritorno, non sul come eravamo ma su che cosa, tornando, vogliamo diventare.
Per queste ragioni ripensare al significato delle parole che usiamo per raccontare il paesaggio non è un gioco astratto ma una propedeutica essenziale ai processi di “ritorno” ai paesaggi dei margini perché senza esperienze di ripopolamento della montagna e del mondo rurale, gli stessi termini di cura e tutela del patrimonio paesaggistico (e anche artistico) finiscono col perdere di significato.
Riflessioni, queste, tanto più necessarie nel momento in cui si ragiona sui flussi innescati da Pnrr, occasione da non sprecare focalizzandosi solo sui grandi attori centrali (le aree metropolitane, le grandi opere, i centri di consumo di ambiente e di territorio) poco compatibili con l’idea di sostenibilità e, per l’appunto, di limite.

Articolo pubblicato da repubblica.it del 16 Febbraio 22

I distretti sociali portano il progresso nel mondo dei vinti

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Articolo tratto dalla rubrica Microcosmi – Il Sole24Ore del 3 Maggio 2022

di Aldo Bonomi

«Ha ancora senso – e quale mai – parlare di progresso?». Si chiede Aldo Schiavone nel suo libro Progresso. Domanda che rimanda al mio collocare la crisi dei distretti economici dopo la pandemia, in scenari di globalizzazione a pezzi, con la crisi ecologica che avanza.

Da qui il mio ipotizzare il fare distretto sociale come un metterci al riparo dai lupi dell’ipermodernità che fa paura e induce sfiducia nel progresso: pandemia-guerra-antropocene. In questo contesto storico-materiale ai nostri distretti economici non basta a darsi speranza, indicare come futuro l’epoca del tecnocene e del digitale che avanza per fare community con il Pnrr. Occorre guardare anche al come ricostruire fiducia e comunità locali fatte da vite minuscole che con le loro virtù civiche messe al lavoro, s’interrogano sul senso del camminare verso il progresso. Da qui il distretto sociale come spazio collettivo di riflessione dentro e non contro l’ipermodernità che avanza per continuare a cercare e continuare a capire

Mi sono ritrovato a usare l’immagine dei lupi perché reduce da una visita a una comunità in itinere che delinea tracce di distretto sociale a Paraloup, sulle tracce del «mondo dei vinti» raccontato da Nuto Revelli. Qui la fondazione a lui titolata sta rivitalizzando le rovine di un insediamento nelle terre alte che la civiltà contadina aveva eretto per “parare dai lupi” il paese giù in basso, divenuto e ricordato come presidio partigiano durante la resistenza per sfuggire e contrastare i lupi che stavano a valle.

Può sembrare un ennesimo guardare indietro a un non più di rovine ma, sarà bene ricordare, che, senza storia delle lunghe derive degli usi e della civiltà materiale dei luoghi, i distretti sociali, ma anche quelli economici, non hanno radici. Anzi sono a rischio di diventare musei di un passato solo da ricordare non da scagliare dentro la metamorfosi che attraversiamo.

Esemplare in questo rovesciamento e uso critico della memoria è il piccolo museo di Paraloup fatto dai racconti delle vite minuscole che con il lavoro di conricerca di Nuto Revelli hanno fatto condensa dei salti d’epoca: dalla vita agra su in alto a pararsi dai lupi, al migrare in Francia, alle due guerre mondiali a fare gli alpini con tanti nomi da ricordare, alla Resistenza, sino all’altro ieri del franare a valle nel fordismo del mondo dei vinti alla Michelin o alla Fiat, con il tema che scava nelle differenze di genere «dell’anello forte» dove prende voce l’altra metà del cielo.

Senza queste storie «di questa terra della malora», lo dico ai cultori dei distretti economici, non ci sarebbe da fare storytelling né marketing di territorio del terzo Piemonte dei distretti manifatturieri, dei distretti enogastronomici delle colline delle Langhe Patrimonio Unesco. Come scriveva Pavese «resta sempre lassù il paese».

La riscoperta dei borghi e dei paesi abbandonati non è solo marketing turistico e smart working ecologico per pochi. Come ci insegna l’antropologa Tarpino «il ritorno va imparato» e a Paraloup hanno imparato la “restanza”. Partendo da interventi leggeri sui ruderi con politiche di alleanze sociali per trovare risorse nelle fondazioni di Cuneo e di Torino hanno ricostruito il borgo. Poi partendo dai saperi contestuali della memoria del mondo dei vinti di Nuto Revelli contaminata con i saperi formali a rete lunga, hanno cercato risorse per i ritornanti nei bandi europei come Interreg e Gal. Pare ce l’abbiano fatta. La restanza tiene se, come ci insegna Vito Teti, non è nostalgia rancorosa del non più, ma il tener dentro l’altrove del non ancora…

Un distretto sociale si caratterizza per incorporare nuove forme di convivenza e tracce di comunità non solo per ricostruire memoria delle virtù civiche, ma partendo dalla coscienza di luogo per guardare e mettersi dentro l’altrove del non ancora che viene avanti. Partendo dalle tematiche di genere dell’”anello forte” si fa conricerca e studio con le donne in montagna oggi, si fa rete con Mercalli sulla crisi ecologica e i suoi tempi maledetti, si cercano alleanze con i tanti piccoli comuni prossimi e lontani devastati dall’abbandono confrontandosi con il rancore di quelli che si sentono vinti e abbandonati e relegati nelle aree interne.

Se si abbassa lo sguardo dalla montagna di Paraloup, seguendo il mondo dei vinti di allora si vedrà Ivrea e il capitalismo dolce di Olivetti, quello hard della Fiat di Valletta e anche i vuoti e i buchi neri del disagio metropolitano che produce fuga dalla città e «vite di scarto del progresso» di cui si occupano distretti sociali urbani con cui collegarsi.

Guardando anche ai distretti economici proliferanti e in cambiamento giù a valle si capirà che anche loro sono in metamorfosi nella crisi di senso e di reddito e si vedrà Carlin Petrini che da anni predica e pratica un’altra agricoltura e poi anche la Ferrero di quel made in Italy delle eccellenze in metamorfosi nella crisi. Per questo servono distretti sociali adeguati ai tempi che vengono avanti. Cercando di rispondere tutti assieme se «ha ancora senso – e quale mai – parlare di progresso?».

Felici & Conflenti

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Felici & Conflenti si occupa di ricercare e trasmettere la cultura coreutica e musicale della Calabria tirrenica centrale. L’associazione organizza eventi residenziali in cui appassionati e ammiratori delle tradizioni musicali Calabresi incontrano musicisti e danzatori di tradizione. Le attività dell’associazione culminano nel grande evento estivo che si svolge ogni anno nell’ultima settimana di luglio. Felici & Conflenti supporta ed implementa principi di turismo culturale responsabile attraverso il coinvolgimento degli abitanti della zona e di agricoltura biologica a conduzione familiare. Focalizzato sulla convivialità e la trasmissione orale, il progetto è rigenerato e trasformato costantemente secondo i bisogni della comunità.

Il territorio del Reventino è caratterizzato da una cultura musicale omogenea, nel repertorio e negli strumenti: storicamente, braccianti e pastori scendevano in piazza con organetti e zampogne in occasione di feste religiose e secolari.
Conflenti, grazie all’importante pellegrinaggio della Madonna di Visora, si è caratterizzato come centro di diffusione della musica per l’area: l’evento religioso infatti attraeva tutta la comunità del  raggio di 20/30 km e, in quell’occasione, i musicisti suonavano insieme scambiandosi saperi e repertori.
A seguito del boom economico degli anni ’60 però, oltre al forte spopolamento che ha interessato l’area, si è assistito a un graduale rifiuto della cultura popolare che ha portato all’allontanamento di intere generazioni dalle tradizioni musicali tipiche dell’area.

L’associazione Felici & Conflenti, che nasce da un’idea di Alessio Bressi e Antonella Stranges e oggi conta 52 soci, mira la riscoperta e alla valorizzazione della cultura musicale e coreutica dell’area del Reventino promuovendo attività di ricerca, condivisione dei saperi e creando occasioni di incontro con e tra il territorio.

Dal 2014, organizza ogni anno una grande festa di comunità con seminari, workshop e attività di turismo esperienziale. Questa iniziativa è momento di incontro tra danzatori, musicisti, ricercatori provenienti da tutta Europa con gli abitanti e i portatori della tradizione locale, nel contesto di un sistema di trasmissione orizzontale dei saperi in cui oralità e condivisione hanno un ruolo fondamentale.

Grazie al lavoro dell’associazione si sta assistendo a un cambio di percezione e ad un graduale riavvicinamento alla cultura tradizionale locale, soprattutto da parte di giovani abitanti, che porta alla ritessitura di legami intergenerazionali per la trasmissione di saperi e ad una rinnovata partecipazione musicale spontanea ad eventi e feste.
Felici & Conflenti sta inoltre sviluppando nuovi progetti di rete con diverse realtà presenti nell’area per valorizzare ulteriormente le tradizioni locali e contribuire allo sviluppo economico e sociale dell’intero Reventino.

Conflenti (CZ)
Associazione Felici&Conflenti
www.felicieconflenti.it

Borgata Paraloup

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Paraloup sede della prima banda partigiana Italia Libera con Duccio Galimberti, Dante Livio Bianco, Nuto Revelli e Giorgio Bocca nel settembre del 1943 ci parla di memoria ma anche di futuro: di nuove forme di economia sostenibile, di neocomunità in fieri intorno all’Associazione fondiaria di recente istituzione.

 

Nel 2006 la Fondazione Nuto Revelli decide di riportare in vita la celebre borgata di  Paraloup (filmata nei  documentari di P. Gobetti (figlio di Piero), Prime bande e di Emanno Olmi e Corrado Stajano, Nascita di una formazione partigiana) acquisendo le baite dagli abitanti in gran parte emigrati in Francia. L’intento è stato di salvare un simbolo della storia della lotta di Liberazione ma anche di ridare vita a un luogo in patente abbandono come era (ed è ) in gran parte la montagna alpina non turistica in senso stretto. Si contano infatti più di 90 antichi abitati abbandonati solo tra i Comuni più vicini (Rittana appunto e Valloriate). Le forme stesse degli edifici recuperati  circa due anni dopo col progetto, pluripremiato, di Paraloup (ad opera degli architetti D. Regis, V. Cottino, D. Castellino, G. Barberis) nel loro mix tra ciò che rimane in piedi del passato (le pietre cadenti delle antiche baite che si raccolgono alle fondamenta) e i materiali del presente (i grandi scatoloni in legno sovrapposti alle rovine) si prestano a “porre in comunicazione” mondi diversi: il tempo breve dei 20 mesi della Resistenza e la lunga durata dell’antica cultura della montagna.  Il recupero di Paraloup ha permesso di poter contare su una grande biblioteca per incontri  ed eventi, di un bar e ristorante, con cuoca e host  residenti (con un direttore esecutivo) di circa 20 posti letto disponibili, di un teatro all’aperto (uno dei primi esperimenti di teatro in quota) e di un importante museo interattivo digitale Il museo dei racconti. Le stagioni di Paraloup con schermo a parete e touch screen. Oltre che del Laboratorio Archivio della memoria delle donne intono a cui si è creato una Community di donne impegnate in progetti  di ritorno o studiose di antropologia alpina.  Paraloup tuttavia non è solo un Centro culturale (lo si può definire un Microsistema culturale e agricolo integrato) perché ospita l’attività di un pastore con il gregge di capre e un caseificio: parte integrante dell’Associazione fondiaria Valli Libere che si è creata negli anni. A Paraloup si tiene, ad anni alterni, nell’ambito dell’istituzione Asfo la Scuola dei giovani agricoltori di montagna (in collaborazione con la Rete del ritorno) sotto la guida  dei docenti dell’Università di Agraria di Torino ( e che prevede stage nelle aziende agricole del Piemonte).

Borgata Paraloup (Cn) – Alpi Marittime 1350 m
frazione del Comune di Rittana, provincia di Cuneo (Valle Stura)

Fondazione Nuto Revelli e Rifugio Paraloup Srl Impresa sociale

www.nutorevelli.org
https.//paraloup.it

La casa a 1 euro

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Articolo tratto da doppiozero.com, 21 Maggio 2021

di Domenico Cersosimo e Vito Teti

All’incirca trenta anni fa, quando lo spopolamento dei paesi interni italiani emergeva in tutta la sua gravità, qualcuno – magari mosso da buone intenzioni – lanciò lo slogan “un paese in vendita”: alienare, ad un costo simbolico, interi aggregati urbani disabitati a forestieri, artisti, turisti che volevano trasferirsi da città e metropoli in piccoli centri in abbandono, dove la vita sarebbe stata – secondo una visione neoromantica – più semplice, lenta, autentica, a dimensione umana.

“Un paese in vendita” ci sembrava una formula ingenerosa, inefficace, irrispettosa del paese che si sarebbe dovuto “salvare” o “ripopolare”. Un paese infatti non è un’accozzaglia casuale di abitazioni, una sommatoria informe, fredda, di manufatti senza un filo che li connette; al contrario, un paese è un artefatto complesso di architetture, di strade, vicoli, case; una trama di memorie, relazioni, vissuti e pratiche sociali interrelate; un luogo antropologico per eccellenza, con una sua dimensione orizzontale e verticale, dove gli abitanti convivono con defunti, santi, lapidi.

A distanza di decenni, a desertificazione demografica delle aree interne ormai avvenuta, con centinaia di paesi vuoti e spopolati, qualcun altro, nella speranza di attrarre residenti, propone la vendita “a un euro” delle case malmesse e fatiscenti abbandonate da tempo dai proprietari. Un’idea, anche questa, devastante perché capovolge la concezione del costruire e dell’abitare, che isola la casa dal resto, dal contesto, dal campanile, dalla piazza, dal cimitero, dalla chiesa, dalla farmacia, dall’orto. Una casa non sta in mezzo al nulla, come l’abitazione-roulotte della famiglia Yi nel film Minari di Lee Isaac Chung in proiezione in questi giorni nei cinema riaperti. Nel paese, lo spazio abitato, vissuto, frequentato, era un tutt’uno senza fratture. Si apparteneva allo stesso modo ad una casa, a una terra, a una località, a una parrocchia, a una contrada, a un acquedotto. Quando la casa si svuotava era la fine di tutto. Anche per questo, la paura che la casa potesse crollare, scomparire, essere travolta – a seguito di devastanti terremoti, di alluvioni e frane periodiche – accompagnava l’intera vita dei “paesani”, spiegando anche il tratto d’incompiutezza, provvisorietà e precarietà che spesso connotava le loro case. Le case di paese quasi mai sono costruzioni banali, seriali. Ogni casa ha una sua personalità, un carattere distintivo, una somiglianza spiccata con il contesto e con il suo proprietario, tanto più nei centri arroccati e appesi, veri e propri miracoli di equilibrio e di abilità costruttiva, frutto di genialità, di storie ripetute di abbandoni e di ricostruzione. 

Dalla fine dell’Ottocento, per poter costruire una casa decente, abitabile, dignitosa, con almeno due stanze e il bagno, i contadini e i braccianti emigravano. E nel caso in cui ritornavano, costruivano tipologie di case con risonanze “americane”, “svizzere”, “canadesi”, rimodellando il paesaggio urbano, la morfologia del paese, l’organizzazione dello spazio. La casa diventa così un segno di distinzione e di affermazione sociale anche per i poveri.

Vendere la casa “a un euro” significa dimenticare tutta la storia del costruire e dell’abitare, umiliare il lavoro “morto” cristallizzato nelle mura e nei pavimenti, i sacrifici dei tanti che per la casa sono andati all’estero, subito privazioni materiali e sentimentali per decenni lontani dalle famiglie e dalle comunità di origine. Vendere una casa “a un euro” è sotto il profilo simbolico svendere memoria comunitaria, svalorizzare il costrutto familiare e sociale incorporato in ogni singola casa, svalutare le case dei “restanti”, dei residenti che hanno continuato a vivere nel paese, a curare e manutenere le loro abitazioni e il vicolo, gli infissi e gli alberi, le facciate e gli affetti, il tetto e le relazioni di vicinato. Vendere una casa “a un euro” sembra uno slogan rivolto più alla vita degli immobili che a quella delle persone, più ad attivare micro-circuiti edilizi che a riabitare, più a vagheggiare fughe-singhiozzo da città invivibili che a costruire nuovi legami comunitari. D’altro canto, nella maggior parte dei paesi, le case vuote e abbandonate, pur avendo già costi risibili, non trovano “domanda”, a testimonianza che la soluzione di mercato è del tutto fallimentare.

I paesi non si ripopolano con gli slogan, con proposte estemporanee e apparentemente accattivanti, semplificanti. Non basta ristrutturare qualche casa per invertire dinamiche di infragilimento umano e di rarefazione dei servizi di prossimità spesso oltre la soglia dell’irrimediabilità. Le soluzioni “facili” aiutano poco mentre oscurano la complessità del riabitare possibile dei paesi. Riabitare significa ricostruire comunità, creare le condizioni essenziali per consentire di rimanere a chi vuol restare, di favorire il ritorno di chi vuole tornare, di accogliere chi ha maturato piani la vita da paese. Ristrutturare e recuperare immobili è solo un tassello della rigenerazione. Senza un’offerta adeguata di servizi di cittadinanza essenziali – la scuola, la farmacia, i trasporti locali, la connessione a internet, un presidio sanitario di prossimità – il ritorno in “vita” di qualche casa non sarà sufficiente per consentire una vita dignitosa ai residenti e a contrastare il declino. Il possibile ripopolamento presuppone progetti e cura molecolari, luogo per luogo, paese per paese, di persone e immobili, di case e servizi, di bambini e asili, di manufatti e lavoro “vivo”, di nuove abitazioni e nuove giovani coppie, di spazi pubblici e botteghe. C’è bisogno di altre visioni, di ribaltare gli sguardi, di un vigoroso impegno civile, di politiche pubbliche radicali per l’epoca nuova insorgente. Guardare il resto dai luoghi marginalizzati e lottare perché i paesi in abbandono diventino una formidabile occasione per accogliere immigrati e per riabitare, come ammonisce Roberto Saviano, “un Paese demograficamente morto come l’Italia”.