I giovani, protagonisti di una montagna nuova

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di Federica Corrado e Stefano Sala

La qualità della vita di chi vive in montagna è maggiore e questo spinge i giovani a impegnarsi in percorsi di studi e attività in piccoli comuni fornendo un importante presidio territoriale.
Una pletora di buone pratiche e modelli replicabili in diversi territori montani italiani cui è necessario dare voce.
Specialmente dopo il periodo di pandemia che la nostra società ha vissuto, la frequentazione della montagna risulta essere sempre più diffusa e popolare e molti sono i giovani che si avvicinano a questa realtà per sport quali l’arrampicata, il trail running o semplicemente per trascorrere i loro weekend sui sentieri o frequentare i piccoli paesi di cui l’Italia è composta ma anche, seppur in numero limitato per iniziare ad intraprendere percorsi diversi di vita e innovativi progetti economici.
Nonostante queste recenti dinamiche, non possiamo affermare che oggi ci sia stato un vero e proprio cambio di paradigma: la maggior parte dei giovani si concentrano nelle grandi città e nei centri urbani dove sono concentrati i servizi (scuole, ospedali, bar, cinema) e vedono il loro futuro in questi ambienti dinamici e ricchi di opportunità lavorative, seppur distanti da un ambiente che è sempre più fragile a causa dei cambiamenti climatici in corso.
Per provare ad andare oltre, con l’idea di superare anzitutto quelle immagini e narrazioni che sembrano sempre contrapporre la città alla montagna, questo numero intende indagare e comprendere a fondo il rapporto giovani-montagna guardando dentro quella nicchia di giovani che i tanti paesi sparsi sulle Alpi e sugli Appennini decidono di viverli 365 giorni all’anno, facendo ancora oggi una scelta difficile e facile allo stesso tempo. Difficile perché i servizi scarseggiano (esistono zone d’Italia ancora non coperte dalla rete telefonica), le comunità sono sempre più frammentate anche nei piccoli paesi ma – soprattutto – perché le distanze e le tempistiche che il vivere in montagna richiede sono diverse da quelle che la società moderna richiede. Facile perché la qualità della vita è maggiore, si ha accesso ad ambienti unici e soprattutto si può vivere in maggior simbiosi con l’ambiente che ci circonda. Proprio questi elementi spingono giovani a impegnarsi in percorsi di studi dedicati e ad aprire la propria attività in piccoli comuni fornendo pertanto un importante presidio territoriale. Una pletora di buone pratiche e di modelli replicabili in diversi territori montani italiani hanno oggi i giovani come protagonisti ed è dunque necessario dare voce a queste coraggiose esperienze. In quest’ottica, sono tante le esperienze in corso che ci restituiscono l’entusiasmo, le capacità e lo sguardo nuovo dei giovani sulla montagna, uno sguardo lontano dalla retorica che oggi ci attanaglia sul recupero dei borghi e che poco ha a che fare con la vera e complessa vita nelle nostre montagne.

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Ormea, una scommessa di ritorno

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Di Antonella Tarpino

Articolo pubblicato su volerelaluna.it

Nella premessa al suo libro Un’Italia che scompare. Perché Ormea è un caso singolare? Fabio Balocco scrive che quando ripercorre la Val Tanaro da Ceva al Colle di Nava è attirato dalle indicazioni dei poveri borghi addossati «alla destra come alla sinistra orografica» e si immagina quanti abitanti ancora vi risiedano. Queste parole mi han fatto pensare a una riflessione di Nuto Revelli riportata nel suo Mondo dei vinti sommerso, perduto, quando descrive quei paesaggi divenuti incolti, finiti nell’abbandono: «Ormai il paesaggio lo leggo sempre e soltanto attraverso il filtro delle testimonianze. Sono le testimonianze che mi condizionano che mi impongono un confronto continuo tra il passato lontano e il presente. Attraverso quelle storie vedo il mosaico antico delle colture e dei colori anche dove è subentrato il gerbido, dove ha vinto la brughiera, vedo le borgate piene di gente e non in rovina, anche dove si è spenta la vita». Perché quei territori in abbandono li si riescono a leggere solo attraverso gli occhi di chi vi ha abitato, il disegno del lavoro impresso sui campi o sui sentieri dei pastori. Così è nel caso delle tante voci dei testimoni che Fabio Balocco raccoglie ad Ormea e nelle sue frazioni, uno dei Comuni che più hanno subito la piaga dello spopolamento.

Brevi cenni sulle sue origini perché non tutti sanno che il cuneese è stato a lungo area di saccheggio dei Saraceni insediati a Fraxinetum tra Provenza e Costa Azzurra. Tracce della loro presenza sono registrate fin dall’890 e rinvenute proprio nel territorio del Comune di Ormea nella torre del Castelletto (oggi rimangono solo le fondamenta) e nella caverna fortificata detta Balma del Messere a Cantarana, che infatti viene anche chiamata “Grotta dei Saraceni”. Solo a partire dal 1600 sorsero però le numerose frazioni di Ormea: fu da allora che gli abitanti si distribuirono lungo le pendici dei monti intorno al nucleo principale di fondovalle – racconta con dovizia l’autore – anche dove i declivi erano più impervi, grazie soprattutto a opere di terrazzamento in pietra a secco, come avveniva del resto nella confinante Liguria, arrivando anche ad altitudini di 1500-1600 metri sul livello del mare. Si formarono prima dei piccoli nuclei di poche abitazioni e poi vere e proprie frazioni: le famiglie richiedevano al vescovo di poter edificare la chiesa, il camposanto e di poter contare su un sacerdote per le funzioni religiose. Nel ‘700 a Ormea erano presenti 8 canonici, 22 preti celebranti e 5 chierici. Col tempo in quei piccoli centri abitati sorsero dei locali adiacenti la chiesa che potessero ospitare le lezioni per i bambini. E alla fine dell’800-inizio 900, la popolazione del Comune era distribuita equamente fra centro storico e frazioni. Secondo un percorso inverso certo è, invece, che lo spopolamento avviato nel secolo scorso riguardò quasi esclusivamente le frazioni di Ormea, non il capoluogo.

Ma veniamo alle testimonianze. Le condizioni della vita erano dure, unito anche al fatto della parcellizzazione dei terreni – racconta Giorgio Michelis – ognuno era proprietario di piccoli appezzamenti e anche sparpagliati: non c’era una grande proprietà che desse da vivere bene. Non tutte le frazioni erano proprio uguali. «Lo spopolamento di Chionea iniziò negli anni ’50 – ricorda un’altra testimone Odette Sappa –. La vita in montagna era dura, le famiglie avevano galline, qualche mucca e qualche capra, nei campi si coltivava grano e patate e nei boschi si raccoglievano le castagne che una volta secche si conservavano per un anno. La vendita di burro e uova veniva barattata con zucchero, sale e altri piccoli beni. Nei lunghi inverni, quando non si poteva lavorare nei campi, le persone più giovani andavano in Liguria o in Francia a raccogliere le olive o a tagliar legna sotto padrone, ma continuavano a risiedere in paese. Il grande esodo iniziò verso gli anni ‘60, quando le famiglie si spostarono per cercare lavoro in altri paesi. In particolare, in tanti si trasferirono a Monte Carlo per lavorare come spazzini». O alla Grascina (Aligi Michelis) quando «c’erano un tempo alcune persone che erano incaricate di venderne la carne, se era commestibile, alla comunità, e ognuno comprava la carne e pagava in base ai capi di bestiame che possedeva. Invece se moriva di malattia, la colletta veniva comunque fatta, ma ognuno pagava una quota inferiore. Questa operazione si chiamava appunto la “grascina”. Si era poveri, ma c’era un forte spirito di comunità. C’erano dei beni che venivano condivisi, tipo la stadera. E ogni abitante contribuiva a mantenere la mulattiera di accesso alla frazione o alla borgata. La “grascina” è terminata quando in una frazione rimasero solo più due famiglie. Era una specie di assicurazione o, meglio, un mutuo soccorso». Coi bambini che facevano i pastori fin da piccoli come Lidia Sappa che: «a otto anni andavo al pascolo dalla mattina alla sera. E c’era anche chi ci andava a quattro anni. Io mi portavo al pascolo delle fazze da mangiare e un pezzo di formaggio. Le fazze erano delle schiacciate fatte con farina, latte e bicarbonato di sodio come lievitante, che si cuocevano sul piano della stufa. Quando c’era la panna si aggiungeva all’impasto. Con questo pasto andavamo su fino quasi sul Pizzo d’Ormea su pascoli comunali. Per pascolare si pagava una tassa molto contenuta al Comune. Non avevamo il cane, come invece avevano altri. I temporali che mi sono presa lo so solo io. Un giorno tre della frazione vennero colpiti da un fulmine e si salvarono per miracolo. E c’erano alcuni che da Chionea salivano su fino quasi al Pizzo, verso le dieci mungevano, poi portavano giù il latte, risalivano dopo pranzo, mungevano di nuovo e scendevano alla sera».

Anche il paesaggio non è più lo stesso perché i tetti allora erano in paglia, in tutte le frazioni, salvo alcuni, pochissimi, che erano in “lose”. La paglia è stata usata (come in altre aree del Piemonte) fino a una cinquantina di anni fa. Ormea – va detto – come altre aree cadute in spopolamento è ai confini tra due regioni diverse, il Piemonte e la Liguria: ha una parlata tradizionale a sé, differente da quella dei paesi vicini, così come dal dialetto ligure e da quello piemontese. Gli studiosi della materia sostengono che derivi dalle parlate dell’ingauno (Albingaunum era l’antico nome di Albenga).  

E ora? Accentuato spopolamento, chiusura dell’attività industriale che la caratterizzava (la cartiera), fallimento dello sci di pista, rarefazione dei turisti, perdita dell’identità culturale, conclude Balocco: un quadro non certo confortante se si confronta Ormea con il passato che ha conosciuto. Cosa si fa oggi per rivitalizzare Ormea? L’autore lo chiede direttamente al sindaco, Giorgio Ferraris. «Abbiamo avuto un passato importante, a partire dalla fine dell’Ottocento, grazie alla costruzione della ferrovia, che ha consentito una facile e comoda accessibilità turistica quando i territori montani di gran parte delle valli alpine erano quasi inaccessibili e l’insediamento industriale della Cartiera, che è stata per quasi un secolo la fonte principale di occupazione per la nostra Comunità. Con queste opportunità, che si sono create più di un secolo fa, la progressiva marginalizzazione e l’abbandono delle attività agricole sui versanti montani sono stati più rapidi e precoci rispetto ad altre vallate. La crisi della Cartiera è stata una vicenda lunga e tormentata, dalla metà degli anni ‘70, quando aveva ancora più di quattrocento dipendenti oltre ad un indotto significativo, fino alla definitiva chiusura del 2007, quando vi erano ancora un’ottantina di occupati». Contestualmente – continua il sindaco – «abbiamo registrato un aumento notevole dell’età media dei nostri concittadini, perché molti giovani sono emigrati alla ricerca di opportunità di lavoro che la nostra zona non offre. Questo sia a causa del progressivo ridimensionamento e poi della chiusura della Cartiera, che per l’aumento della scolarità, che ha comportato la necessità per molti giovani di trasferirsi in aree dove esistono possibilità di collocazioni professionali adeguate e coerenti con i titoli di studio conseguiti, inesistenti, o limitatissime, sul nostro territorio. Sono cambiate le motivazioni, ma la diminuzione della popolazione residente, inevitabilmente, continua e non si registrano, al momento, inversioni di tendenza».

Tra le realtà però significative di Ormea da valorizzare è la Scuola Forestale con ricadute importanti sul territorio sia per gli stimoli culturali che dà al territorio sia per la rilevanza economica della presenza di un numero significativo di insegnanti e di studenti. Gran parte degli studenti provengono da località del Piemonte e della Liguria che, per le distanze, non sono raggiungibili quotidianamente e sono quindi costretti a risiedere a Ormea, dove molti vivono in affitto in alloggi privati e quelli delle prime classi nel convitto annesso alla Scuola, che può ospitare fino a 70 ragazzi. Oltre a rappresentare un indotto economico, la Scuola costituisce una struttura di eccellenza, unica nel suo indirizzo nel Nord Ovest, che ha collegamenti e interazioni sia con Scienze Forestali della Facoltà di Agraria dell’Università di Torino, sia con tutti gli enti che, a livello nazionale e regionale, hanno competenze e interessi nel settore forestale e più generalmente nell’economia dei territori montani. Sono state intraprese alcune iniziative per incentivare una crescita del settore, come la creazione di un consorzio e la realizzazione di un impianto cittadino di teleriscaldamento alimentato a cippato di legna.

Mi soffermo su questo punto a riprova del fatto che declinare la scommessa del Ritorno in montagna (o della Restanza che è la stessa cosa) con la parola scuola è decisivo. A Paraloup per esempio, la borgata alpina della Valle Stura che proprio la Fondazione intitolata a Nuto Revelli ha recuperato è stata accolta, su iniziativa della stessa Facoltà di Agraria di Torino la prima Scuola del Ritorno o meglio Scuola per i giovani agricoltori di montagna (Sgam) sotto la direzione del prof. Andrea Cavallero specializzato proprio in Scienze forestali. Scuola di Ritorno allora? Sì, perché tanto l’esodo dalla montagna a Ormea (come nelle vallate alpine cuneesi che ha toccato a partire dagli anni Cinquanta tassi di spopolamento superiori al 70%) è stato caotico, sgovernato, tanto i processi di Ritorno, ripopolamento, complessi, legati alla specificità dei singoli territori vanno governati. Imparare a ritornare o a restare (quando tutti i luoghi cambiano in continuazione, secondo l’antropologo Vito Teti) vuol dire anche ricostruire un tessuto sociale, riproporre quelle neocomunità tutte da costruire (nella definizione di un altro antropologo Pietro Clemente) perché sono il prodotto, a differenza che nel passato, di una scelta di vita consapevole. Per chi ritorna ma anche per chi resta. Difendere i territori dallo spopolamento e dall’abbandono vuol dire racquistare una coscienza di luogo (uso la felice espressione degli amici Territorialisti di Alberto Magnaghi) perché i luoghi non sono indifferenti.

Non è una scommessa semplice il Ritorno in montagna, chiamato, com’è a sanare una caduta anzitutto culturale: perché è proprio il venir meno di un linguaggio proprio, il farsi raccontare dagli altri – dallo sguardo ieri dei cartografi degli Stati-nazione (e da ciò che io chiamo le “geografie negative” dei margini, le frontiere, i confini) oggi dei turisti o degli investitori – la premessa dello spopolamento, dell’abbandono di intere comunità. È importante allora, come fa Fabio Balocco, reinterrogare il patrimonio territoriale che abbiamo ereditato perché nella nostra fase opaca, disorientata, priva di direzione, possiamo “riconoscerci”. Riconoscere i nostri territori, è l’impegno crescente di molti di noi, imparare a reinventare un futuro che neanche quello è rimasto in piedi, legato com’è a un’idea un progresso che ha scompensato e violato l’ambiente naturale, lo stesso disegno del Paese, schiacciato com’è tra i “troppo pieni” delle città e delle coste e i “troppo vuoti” delle montagne (appenniniche e alpine) e delle aree interne. Come Ormea, con le sue frazioni svuotate, sta a dimostrare.

Potrà il PNRR rilanciare le aree interne?

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di Elisa Corazza

Articolo tratto da La rivista Il Mulino – 9 giugno 2022

Per come è strutturato il Piano e per quelle che sono le condizioni, anche amministrative, delle aree, è difficile pensare che in un tempo breve le aree interne possano effettivamente beneficiare di questa occasione di rilancio.

Chiedersi se il Pnrr riuscirà a rilanciare le aree interne impone una riflessione sull’impatto complessivo del Piano, per coglierne gli effetti sugli equilibri tra i territori e comprenderne le effettive potenzialità.

Come è stato efficacemente osservato da Gianfranco Viesti nell’introduzione a questo “speciale”, il Piano di ripresa italiano non vede i territori, nel senso che non offre quella lettura trasversale che consente di far emergere la diseguaglianza territoriale.

Tra i divari rimossi, quelli che colpiscono le aree interne risultano ancor più nascosti, quasi invisibili nelle pieghe nascoste dell’Italia rugosa, fatta di microluoghi lontani e dimenticati, le cui difficoltà non vengono censite né denunciate perché interessano pochi o nessuno. Trattandosi, inoltre, di luoghi distribuiti lungo tutto lo stivale (l’Italia delle aree interne si snoda dalla val Chiavenna al Salento, passando per l’Appennino centrale) la loro difesa non trova cittadinanza nelle storiche rivendicazioni identitarie che hanno caratterizzato la questione territoriale italiana.

Eppure, da più parti si sente dire che il Pnrr rappresenta per le aree interne un’occasione unica, in grado di invertire l’inesorabile curva demografica che ha portato allo spopolamento di luoghi, paesi, aree, determinando non solo la perdita di una memoria che per secoli ha costituito la spina dorsale della cultura italiana, ma anche rischi concreti per la cura dell’ambiente e del territorio (intervenendo al Forum delle aree interne a Benevento il ministro Giovannini ha sottolineato che la cura del territorio è essenziale per evitare il collasso dell’ecosistema).

Probabilmente è presto per misurarsi con queste aspettative (si veda l’Accordo stipulato tra il Centro di ricerca per le aree interne e gli Appennini (AriA) e Istat, “per la realizzazione di una collaborazione su le conseguenze del Recovery Plan sulle Aree Interne”); è possibile però individuare nella struttura del piano e nei metodi a cui è affidata la sua realizzazione una serie di fattori che, se ignorati, possono minarne dalle fondamenta le capacità di successo, tenendo conto delle caratteristiche sociali, economiche e culturali delle aree interne. Deve essere inoltre osservato che la scelta di far confluire in un’unica strategia di ripresa tutti i fondi disponibili (nazionale ed europei) depotenzia in parte gli interventi sulle aree interne, che godevano già, grazie al lavoro impostato da Fabrizio Barca con la strategia nazionale per le Aree Interne (Snai), di proprie specifiche linee di finanziamento.

La scelta di far confluire in un’unica strategia tutti i fondi disponibili depotenzia in parte gli interventi sulle aree interne, che godevano già di specifiche linee di finanziamento

Nella struttura del Piano di ripresa è prevista come è noto una specifica missione dedicata alla coesione sociale e territoriale, all’interno della quale sono rinvenibili anche interventi dedicati alle aree interne. Sono state avviate, ad esempio, linee di finanziamento dedicate al potenziamento infrastrutturale per migliorare strade e presidi sociali, nella speranza di creare sistemi, o ecosistemi, che siano in grado di stimolare l’innovazione. Si tratta di interventi che, al momento, hanno attivato soprattutto progetti di rigenerazione urbana nei piccoli centri, ai quali si intreccia il sostegno alle aree colpite dal terremoto, che coincidono in gran parte con aree interne.

Il riferimento alle strade, e in generale alle infrastrutture di mobilità che sono il vero punto dolente delle aree interne, consente di allargare il raggio della valutazione del Piano, per cogliere, al di fuori degli interventi specifici di coesione territoriale, alcune linee del Pnrr che producono, in maniera indiretta, un impatto sulle aree interne. È infatti soprattutto in questa visione più allargata che si intravvedono le potenzialità per i luoghi marginali: la questione aree interne si compone, nel Piano di ripresa, di diverse poste, molte delle quali si ritrovano tra le pieghe di altre missioni.

Gli interventi concernenti la transizione ecologica, ad esempio, avranno certamente un impatto sui territori delle aree interne, alle prese, da decenni, con problemi di dissesto idrogeologico o impegnati nella tutela della biodiversità, in territori in cui lo spopolamento si misura anche in termini di vulnus ambientale. La questione sanitaria, inoltre, ha rappresentato negli anni uno dei fattori di storico divario delle aree interne (tanto che la distanza dai poli sanitari costituisce un indice di perifericità ai fini della Snai), sicché si può certamente affermare che l’attuazione della missione 6 costituirà un banco di prova fondamentale per il miglioramento della vita delle aree interne. Anche senza volere scomodare la telemedicina, che richiede, per poter offrire un servizio efficace, una cultura digitale adeguata nella popolazione di destinazione (le aree interne sono popolate in prevalenza da anziani), gli interventi più promettenti sono quelli che riguardano la riforma dell’assistenza medica di prossimità, dove le Case di Comunità previste dal DM 71 potranno fare effettivamente la differenza per la medicina territoriale delle “terre d’osso” (v. M. Rossi Doria, La polpa e l’osso: scritti su agricoltura, risorse naturali e ambiente, L’Ancora del Mediterraneo, 2005), ridotta allo stremo da anni di politiche sanitarie tese ad accorpare in grandi centri ospedalieri ogni presidio di cura.

Si potrebbe andare molto oltre e analizzare tutte le voci del Piano, cercando tra le pieghe dei diversi finanziamenti gli interventi che sfidano la questione aree interne (che dire allora del c.d. Bando Borghi, l’intervento di rigenerazione culturale e turistica che premia – seguendo il motto “The Winner takes it all” – alcuni “gioielli” tra i borghi italiani? (si pensi all’appello lanciato dalla piattaforma Borghi e rivolto al ministero della Cultura per chiedere il ritiro del bando della linea A). O delle infrastrutture digitali, che risultano essenziali per poter anche solo sperare che il fenomeno del cd. Southworking vada a beneficio anche delle aree interne? O al tema, rilevantissimo, delle comunità energetiche?).

È tuttavia più utile segnalare alcuni snodi che paiono essenziali per una corretta attuazione del piano, rispetto ai quali la cecità nei confronti delle aree interne potrebbe effettivamente lasciare le terre d’osso con un pugno di mosche in mano.

La prima questione attiene al metodo di erogazione del finanziamento, che, come è noto, si fonda sulla messa a bando delle diverse attività. Il metodo, mutuato dalla cultura del diritto pubblico, intende rispondere al principio della premialità, in reazione al criterio del cd. finanziamento “a pioggia” e ad ogni idea di pianificazione economica. È già stato scritto, tuttavia, che il metodo in questione rischia di lasciare a piedi proprio quei territori che più ne avrebbero bisogno, sostanzialmente per mancanza del know how che è il presupposto necessario per vincere il bando. Ciò è ancor più vero nel contesto delle aree interne, dove le caratteristiche di isolamento e spopolamento sono fonte di una strutturale carenza di capitale umano.

Nelle aree interne, affidare tutto ai bandi non solo riproduce le condizioni di diseguaglianza cui i bandi vorrebbero rimediare ma innesca una vera e proprio inversione tra i fini e mezzi

Nelle aree interne, affidare tutto ai bandi non solo riproduce le condizioni di diseguaglianza cui i bandi vorrebbero rimediare (secondo un meccanismo che è comune a tutti di divari territoriali), ma innesca una vera e proprio inversione tra i fini e mezzi. Per rispondere in modo efficace ai bandi occorrerebbe, infatti, avere già colmato il divario (in termini di massa critica, capacità di innovazione, personale tecnicamente preparato ecc.) che con il bando si intende colmare. Una spirale senza fine.

Sul piano istituzionale, poi, il fulcro dell’attivazione è affidato ai comuni, cui è mancato, come effetto delle note politiche di austerity imposte agli enti territoriali, quel fisiologico ricambio generazionale essenziale per la Pubblica Amministrazione – come per ogni organizzazione – se l’obiettivo è innovareNei comuni delle aree interne, in cui prevalgono le dimensioni piccole o piccolissime (oltre la metà dei comuni italiani si trova nelle aree interne), l’impatto della riduzione del personale e del mancato turn over ha effetti amplificati perché non può essere assorbito da numeri ed energie che comunque circolano nei grandi centri urbani. Né è immaginabile che la soluzione del problema si ritrovi nell’assunzione – a termine – di facilitatori o esperti di politiche territoriali: proprio perché prive di quel tessuto spontaneo che si attiva comunque nei grandi centri, le aree interne hanno bisogno, per rilanciarsi, di contare su una Pubblica Amministrazione efficiente, preparata e dedicata in modo stabile al proprio sviluppo. L’assenza, tra l’altro, di un vero e proprio settore privato rende le aree interne particolarmente esposte a interventi “predatori” da parte di imprese prive di un effettivo radicamento sul territorio ed interessate essenzialmente ai bandi.

Senza questi accorgimenti (attenuare la “bandomania” e irrorare i comuni di personale preparato e stabile) è difficile pensare che in un tempo breve come è quello che ci separa dal 2026 le aree interne possano effettivamente approfittare di questa grande occasione di rilancio. Certo verranno realizzati – e del resto sono già in fase di avvio – interventi di rigenerazione nei piccoli paesi, che rischiano tuttavia di restare confinati nella sfera della mera ristrutturazione, perché non si può affidare al patrimonio immobiliare la funzione salvifica di rilanciare un territorio (è curioso che anche il lessico che circonda il dibattito pubblico sul Pnrr sia ampiamente mutuato dall’ingegneria civile: “messa a terra”, “progetti cantierabili” ecc.). La riattivazione di un luogo – ancor più se remoto – è questione assai complessa, che passa necessariamente attraverso il rebus della creazione di lavoro, finora autentico motore della demografia.

Se i luoghi sono anche uno spazio politico, le aree interne avrebbero bisogno, in questa fase di ripresa, di quella visione comune che ha fatto emergere, una decina di anni fa, la questione aree interne come questione nazionale: servirebbe, in altre parole, un filo rosso che consenta di superare la micro-frammentazione dei luoghi marginali. In assenza di un tale approccio, il vero rischio è di ritrovarsi con una manciata di comuni (o di “borghi”) rimessi, sì, a nuovo, ma a beneficio, tuttalpiù, di cittadini delle aree urbane che li hanno scelti come buen retiro (in riferimento al dibattito innescato da Stefano Boeri sul ritorno ai borghi, si veda lo speciale “Il Centro in periferia” della rivista “Dialoghi Mediterranei”, n. 48/2021).

Margine e risorsa

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di Silvia Passerini

Da tempi non sospetti l’Associazione Thara Rothas in collaborazione con la Rete del Ritorno si batte per evidenziare le risorse presenti nei territori marginali, circa il 60% dell’intero territorio nazionale. Seppur a rischio di desertificazione e con sostanziali problemi strutturali, come la mancanza di servizi e i rischi idrogeologici, i margini sono il luogo in cui più facilmente si rintracciano esperienze tra le più significative di nuovi stili di vita. Esperienze volte all’agricoltura consapevole e ad una produzione di valore che sa mettere al primo posto il rapporto uomo-natura costruendo nuove comunità che guardano al bene comune come una meta importante da raggiungere.

Guardare ai margini come potenziale di sviluppo innovativo è la visione reale che si pone davanti a noi, indipendentemente dalle forze che possono entrare in gioco. È un campo d’azione in cui è possibile portare la migliore esperienza, frutto di una rilettura coscienziosa e critica della più recente storia umana.

Le storie di chi torna sono storie di vite di tutti i giorni, di persone consapevoli che tentano di tramutare un bisogno collettivo, in realtà. Tutto ciò richiede impegno e costanza, determinazione e orgoglio, fatica e tanta forza di volontà.

Tornare è un po’ come resistere alle cecità del nostro tempo per sviluppare visioni futuribili per l’oggi e per chi verrà. Preservare per non estinguersi, ritrovare le antiche alleanze con il mondo naturale intercettando il concetto di memoria che interseca punti generazionali, apparentemente molto lontani, ma invece, mai così vicini come oggi.  Molte le nuove occupazioni che si lasciano ispirare dal passato per individuare oggi un connubio fra antico e nuovo, tradizione e innovazione tecnologica. Chi torna ai margini si occupa della cura della Terra, spinto dal desiderio di un cambiamento che inizia dalla propria vita per poi riflettersi sull’intera collettività.

Tornare alla terra consapevolmente e per scelta, è la più grande rivoluzione e innovazione dei nostri tempi.

Chi torna non pensa alla produzione industriale o alla grande distribuzione, anzi la nega nelle sue dinamiche e nei suoi obiettivi. Chi torna ama gli odori delle stagioni e gode dei colori che un ambiente, di nuovo selvatico, sa offrire. Chi produce con attenzione e consapevolezza, ama il suo lavoro e intende trasferire il valore che vi è in ciò che fa imparando a ricucire le relazioni e dar vita a nuove comunità, le stesse che dagli anni ’50 in poi hanno subìto una vasta polverizzazione.

Chi torna sa che necessita un’operazione lenta ma costante: aprire relazioni e condividere saperi. Costruire, o meglio ri-costruire le Comunità locali.

Sarebbe ingiusto definire tutto ciò nostalgico o romantico perché è un gesto che è carico di fatica, lucida e fortemente consapevole, quasi irrinunciabile. Forse è anche rappresentativa della ricerca di una pace generazionale che riconosce oggi il lavoro di nonni che, in tempi più lontani, furono costretti a rinunciare a depositare il loro sapere nelle mani dei più giovani, consegnando ogni cosa invece ad un tempo di oblìo.

Ecco forse questo è un modo per dire che non abbiamo dimenticato e che quegli strumenti, come quelle fatiche, non sono state vane, ma ancora insegnano, oggi che mani giovani sono tornate.

E a chi ieri diceva che alla terra sarebbero tornati i laureati oggi possiamo dire che aveva ragione, non a caso all’agricoltura e all’allevamento di qualità si avvicinano e sono protagonisti profili di persone con percorsi di studi universitari, dove si coniugano competenze culturali, tecnico-scientifiche ma anche informatiche.

Così si torna per scelta e cambiamento culturale, si torna per vivere meglio e star bene, proteggendo la propria salute e quella degli altri. Si torna usando ma mai consumando territorio, piuttosto bisogna essere in grado di restituire. Si torna per non essere consumatori di un mercato ma per essere utilizzatori consapevoli per un bisogno primordiale: vivere.

Insomma si torna per rispondere ai bisogni del nostro tempo disegnando linee libere dalle griglie del sistema. Trovare risposte è ciò che rende il ritorno protagonista del nostro tempo.

È strano a dirsi ma, dove esiste il problema e dove è più forte, lì c’è la soluzione più interessante, tutto il resto risulta quasi un surrogato, frutto di politiche e strategie dei sistemi centralizzati assai distanti dalla realtà.

Chi torna non fa troppo conto sui fondi pubblici bensì sul lavoro condiviso e di rete, utilizza lo scambio e l ’auto-produzione o il reciproco soccorso.

Anche l’abitare e il costruire spesso si basano sull’alleanza uomo-natura, si vedano le esperienze di auto-costruzioni in paglia e argilla ma anche di case in legno o pietra.

Forte è il senso di responsabilità delle proprie azioni, che porta a sentirsi protagonisti attivi del proprio tempo.

Riccardo, un giovane padre spiega il suo impegno nell’aver contribuito al miglioramento della collina in cui abita, eliminando un vecchio capannone con un tetto in Eternit per edificare una casa in auto-costruzione in argilla e paglia regalando così alla Comunità un paesaggio armonioso e sostenibile.

Francesco invece si preoccupa di manutenere il bosco e i campi della casa che gli è stata data, in uso gratuito, dal proprietario che non se ne faceva più nulla. Vive di frutti spontanei e del suo orto. Sperimenta nuove possibilità sostenibili come il vivere di sola energia solare e il riuso della lana, che oggi viene considerata rifiuto speciale. Francesco dice: «si può vivere usando poco e curando ciò che abbiamo di più prezioso».

Elena, alla morte della nonna pastore, capisce il valore dell’opera compiuta e decide di occuparsene lasciando le precedenti mansioni, apparentemente più redditizie. La sua soddisfazione è quella di non aver lasciato andare ciò che per sua nonna era stato vitale e quindi di aver tenuta viva la cultura della pastorizia e della nonna offrendo a lei una vita più naturale.

Fabio invece, per coltivare i suoi campi di montagna, pratica la trazione animale e sostiene che sia molto più economico che utilizzare il trattore e che solo così si può avere cura del proprio territorio, infatti solo camminando sulla terra la si può conoscere ed amare in ogni suo angolo e piegatura.

Giacomo coltiva prodotti orticoli e frutti antichi, pratica esclusivamente la vendita diretta per lui è l’unica modalità di commercializzazione perché nel suo lavoro ritiene che ci debba essere il trasferimento di conoscenza che può avvenire solo se, chi compra, si reca direttamente sul campo e comprende il lavoro svolto. Giacomo coltiva in biodinamica, come molti altri, non ha alcuna certificazione perché troppo costosa e non sempre garante, lui dice: «non c’è miglior certificazione che la conoscenza diretta del come viene prodotto».

Le attività sono spesso il frutto di una rilettura fra passato e presente; c’è chi fa cosmesi allevando asini, chi si occupa di erbe officinali, chi di prodotti caseari, artigianato misto fra tecnologia e antichi saperi, e altro ancora. Sanno evidenziare la natura del luogo utilizzando ciò che altri ritengono rifiuto.

In una recente ricerca condotta dall’Università Statale di Milano per la Regione Lombardia in merito ai nuovi imprenditori di montagna, cui ho contribuito, è emerso che chi si occupa della cura del territorio, del paesaggio e sperimenta nuovi stili di vita, non produce redditi importanti ma comunque riesce a produrre risorse economiche che consentono di accedere ai beni non direttamente prodotti. Non vi è ambizione di uno spietato business semplicemente perché non è l’obiettivo principale. Ciò che importa infatti è il cambiamento a cui si è chiamati a contribuire, ognuno nel suo ruolo e nel suo quotidiano, sottolineando la necessità di invertire il paradigma fin qui adottato.

Non sono il centro e le sue dinamiche a dominare la scena bensì il margine e le sue soluzioni.

È sempre più chiaro che curare il territorio ha un valore sociale e che questo è ciò che prima di tutto va riconosciuto. Produrre cibo facendo paesaggio significa tutelare il territorio.

I terreni agricoli biologici sono in gran aumento, FederBio OFOM dichiara che in Europa ci sono 15 milioni di ettari e 400 mila operatori impegnati. Ciò non significa che tutti siano corrispondenti alla narrazione appena fatta, ma certamente le lancette si stanno spostando e al di là delle ricerche, delle strategie centrali o qualsiasi dato scientifico rilevato, qualcosa, proprio nei territori marginali, sta succedendo, ma soprattutto qualcuno, senza attendere che altri facciano, sta già facendo. Nessuna strumentalizzazione però, ma riconoscimento e gratitudine per chi, sulla propria pelle, sta sperimentando un futuro possibile.

È a questo che l’Associazione Thara Rothas con il sostegno della Rete del Ritorno e della Fondazione Nuto Revelli, si è voluta dedicare, incontrando il favore e la comune visione di Ed.Terre di Mezzo. Insieme hanno dato vita, all’interno della manifestazione/Fiera “Fa la Cosa Giusta” – Milano (organizzata da Ed. Terre di Mezzo) ad un settore dedicato “Territori Resistenti” ove annualmente è diffusa una fitta programmazione culturale.

Un impegno utile che guarda a ciò di cui vi è bisogno più a ciò che fa tendenza.

Un impegno doveroso per chi, come noi, crede che sia giunto il momento di cambiare i paradigmi fra centro e margine.

Articolo pubblicato su Dialoghi Mediterranei, n. 39, settembre 2019

Il bosco che avanza

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Articolo tratto da Dialoghi Mediterranei n.22, Maggio 2022

di Settimio Adriani

«Il bosco che avanza» è la scritta posta sulla gigantografia affissa dalla Pro Loco di Fiamignano sulla parete di un edificio (disabitato!) nei pressi della piazza, di fronte all’unico bar del paese, nel luogo in cui i pochi abitanti residui e i frequentatori domenicali si incontrano e passano il tempo, dove “si fa la piazza”: «Vado a fare un po’ di piazza», si dice dalle nostre parti uscendo di casa per raggiungere gli altri e intrattenersi con loro. La piazza non è un luogo, non c’è in sé, la fanno le persone con le loro relazioni, finché ci saranno, dopo resterà soltanto un luogo senza vita, allora sarà uno slargo, non una piazza.

Quale senso può avere l’affissione di un’immagine in bianco e nero risalente a una cinquantina di anni fa e raffigurante il monte completamente brullo alle spalle del paese? Che significato ha la freccia colorata che orienta lo sguardo dell’osservatore proprio su quell’altura, oggi quasi totalmente boscata?

Una lettura superficiale e limitata all’evidenza rischia di rivelare la banale narrazione della vegetazione in netta fase di espansione a totale vantaggio dell’equilibrio ecosistemico e, in definitiva, di una condizione ambientale complessivamente in deciso miglioramento. Tutto ciò è certamente vero, seppure soltanto per alcuni aspetti. Infatti, come si avrà modo di ravvisare più avanti, il ragionamento non tiene conto di tutte le componenti dell’ecosistema.

La grande foto, datata 1967, raffigura lo scorcio che si può osservare nella fisionomia attuale proprio dal luogo in cui l’immagine è collocata. Poco più di cinquant’anni fa, quel monte era completamente spoglio e mostrava ovunque la roccia nuda con qualche cespuglio striminzito qua e là, nulla di più. Tuttavia, «Il bosco che avanza» non è l’orgoglioso slogan di una visione ecologista della dinamica in atto, ma è piuttosto un chiaro segno della modernità e dello spopolamento.

L’altura, totalmente demaniale, ha dato lungamente da vivere anche a chi non aveva di suo: il pascolo delle capre e la consuetudine al femminile del “fascittu”, ovverosia la raccolta quotidiana delle sterpaglie portate a casa per cucinare.Insomma, nel tempo la montagna si è donata completamente alla comunità, spogliandosi di tutto il suo povero e unico avere, la vegetazione. Poi sopraggiunse la sacrosanta frenesia di rincorrere il benessere, e soprattutto il volerlo garantire ai figli. Novità che modificò gli equilibri fino ad allora rimasti più o meno immutati per secoli, e si andò via, in tanti, troppi.

Se tutto ciò è ormai tristemente trascorso, perché impegnare una parte delle già magre risorse economiche della Pro Loco nell’allestimento di una gigantografia raffigurante un aspetto del paesaggio dei tempi andati? L’operazione è banalmente finalizzata a fissare un riferimento temporale certo del mutamento paesaggistico sopraggiunto. Il ragguaglio è rappresentato dall’anno dello scatto, impresso sull’immagine della veduta di allora, cosicché la simultanea visione del ‘passato’ e del ‘presente’ renda il cambiamento prontamente manifesto all’osservatore.

L’obiettivo della Pro Loco non vuole essere la rimembranza del mai esistito “bel tempo che fu”, ma la semplice testimonianza dell’impatto esercitato dalla piccola popolazione sui boschi di prossimità (impronta ecologica parziale? [Sito 1]), evidentemente marcato per lungo tempo. Poi, insieme all’emigrazione arrivarono la corrente elettrica, le bombole del gas, le prime automobili e l’asfalto sulle strade principali. Il saccheggio si spostò altrove e lentamente ma inesorabilmente la vegetazione cominciò a riconquistare il suo spazio.

Nello specifico, quindi, «Il bosco che avanza» è un andamento da accogliere positivamente? Se per alcuni aspetti lo è senz’altro [1], per altri direi proprio di no. Infatti, esaminata a livello globale, la dinamica d’insieme alla quale sono sottoposte le superfici forestali non raccoglie un giudizio univoco e unanime: se in alcune aree il bosco avanza in seguito all’abbandono delle aree marginali, in altre arretra per gli effetti dell’antropizzazione (agricoltura, zootecnia, infrastrutture, ecc.). Il fattore umano è comunque decisivo sul trend in atto, ed è prevedibile che perduri per lo meno finché Homo sapiens sapiens continuerà ad essere la specie largamente dominante e impattante sull’ecosfera (per nostre inconfessate colpa e fortuna! Sfido chiunque a voler tornare alle condizioni di vita che si sono susseguite dalle origini della specie all’insorgere dell’era industriale), atteggiamento che ha fatto coniare il neologismo “Antropocene” (Sito 4).

Non ci sono quindi altri obiettivi sostenibili ed equilibrati da ipotizzare, studiare, proporre? Almeno uno esiste certamente, è di carattere complessivo, scaturisce dall’analisi di un aspetto del contesto generale ed è fondato sull’inconfutabile evidenza che su questo fragile pianeta siamo in troppi (Penfound 1968: 56-62; Pimentel 2012: 151-152) e malamente distribuiti. 

Per risolvere la questione della sovrabbondanza, sarebbe utile e urgente ripudiare la benedizione biblica «Andate e moltiplicatevi» e adottare l’opposta filosofia laica «Siete al limite, o forse lo avete già superato, andate e riducetevi». Però, chi ha il coraggio di proporlo? I vincoli macroeconomici in essere sono molti e folli, ma ormai consolidati: cosa accadrebbe al ‘mercato’, alla ‘crescita’ e al ‘PIL’, che secondo la concezione corrente devono incrementarsi costantemente senza invertire mai la tendenza?

In realtà, se si abbandonassero tali ‘dogmi’ imperanti, sarebbe assolutamente possibile individuare una nuova strategia razionale da perseguire, e non potrebbe che basarsi su un postulato indubbio: se le risorse del pianeta sono finite la crescita non può essere infinita!

A tal proposito voglio proporre uno spunto di riflessione: cosa accadrebbe se, del tutto legittimamente, i popoli dei così detti Terzo e Quarto mondo (Sito 6) rivendicassero il nostro tenore di vita, o addirittura quello delle comunità maggiormente avanzate? Un cataclisma di proporzione epocale, perché ogni forma di risorsa disponibile (offerta) sarebbe drammaticamente insufficiente a soddisfare la nuova mole di bisogni (domanda).

Pertanto, se viste nell’ottica rivoluzionaria della contrazione numerica, le piccole comunità ormai prossime all’estinzione sono all’avanguardia? Direi proprio di no, è loro intenzione crescere e continuare ad esserci, forse non a torto.

Nell’ottica di tale auspicio che viene dal basso e ripudiando la visione antropocentrica, si provi a immaginare un qualunque magnifico paesaggio senza l’uomo che lo ammiri, che ne goda e lo custodisca; l’esistenza del paesaggio stesso avrebbe un’accezione nuova e inesplorata.

Applicando tale approccio alla gigantografia in questione, si provi a vagheggiare l’immagine del 1967 senza Filippa alla finestra e Teresina sulla strada, mentre ozia e con l’altra conversa riparandosi gli occhi dal sole che la infastidisce, perché ormai alto sul Monte Velino, a oriente del paese. Si provi a immaginare lo stesso scatto privo anche di quei pochi altri ma evidenti segni di vita.

Per averne un assaggio è sufficiente spostare lo sguardo sulla parte sinistra della figura 1, dov’è riprodotta la situazione attuale: Teresina non c’è più, le finestre di Filippa sono ormai quasi perennemente chiuse, e ‘il bosco avanza’. Il tutto può essere letto come una sorta di contrappasso del doppio problema globale: la colpa è rappresentata dal genere umano esageratamente sovrabbondante (Parfit 1986: 145-164), malamente, inquietantemente e tristemente concentrato nei sobborghi delle città e delle megalopoli (Jaber 2020: 1-14), dove il livello di naturalità si riduce drasticamente; mentre altrove, come qui a Fiamignano, la pena è data dallo spopolamento, metaforicamente contrassegnato dallo slogan «Il bosco che avanza».

Il problema è aperto e l’attesa è concentrata sull’auspicato «‘invertire lo sguardo’ dalle città alle zone interne» (Clemente 2019). Intanto il paese ancora per un po’ resiste, con le sue molte case sottoutilizzate e quelle ormai abbandonate, vagheggiando la ridistribuzione dei cittadini e lo sciame dalle metropoli, resta in attesa del ritorno che non ci sarà.

Note
[1] «[…] il giorno in cui la Terra esaurisce le risorse naturali previste per tutto il 2021, cade il 29 luglio, rispetto al 22 agosto dell’anno [2020], che era stato posticipato a causa della pandemia. Nel 1970, per esempio, la giornata era caduta il 29 dicembre. E dunque il Pianeta, come sta accadendo appunto negli ultimi decenni, [dal 30 dicembre] va in credito sulle risorse dell’anno successivo dimostrando che lo sta sovrasfruttando. […] Fra le cause principali ci sono l’aumento dell’impronta ecologica (che calcola quante e quali risorse consuma ciascuno) e la deforestazione» (Sito 2). Per il 2022 l’Overshoot day italiano è stimato al 15 maggio (Sito 3). 
Riferimenti bibliografici 
D. Parfit, Overpopulation and the Quality of Life, «Applied Ethics», 1986.
D. Pimentel, World overpopulation, «Environment, Development and Sustainability», 14(2), 2012: 151-152.
S. M. Jaber, Is there a relationship between human population distribution and land surface temperature? Global perspective in areas with different climatic classifications, «Remote Sensing Applications Society and Environment» 20, 2020. DOI:10.1016/j.rsase.2020.100435
P. Clemente, Invertire lo sguardo, «Dialoghi Mediterranei», 36, 2019.
W. T. Penfound, The Problems of Overpopulation, «Bios 39», n. 2, 1968: 56-62. http://www.jstor.org/stable/4606831
Sitografia
Sito 1. https://www.footprintnetwork.org/
Sito 2. https://www.ansa.it/canale_ambiente/notizie/natura/2021/07/28/domani-earth-overshoot-day-finite-le-risorse-naturali-2021_e109d9bc-2580-4f44-8b96-eecae5e5dd4c.html
Sito 3. https://www.overshootday.org/newsroom/country-overshoot-days/
Sito 4. https://www.treccani.it/enciclopedia/antropocene_(Lessico-del-XXI-Secolo)/
Sito 5. Universidade de Coimbra: https://altageografia.weebly.com/uploads/1/1/9/3/119304490/pt_00.pdf
Sito 6. https://www.docenti.unina.it/webdocenti-be/allegati/materiale-didattico/238416